Scampata dalla shoah

Enrica Zarfati, 86 anni, numero di matricola A8506 del campo di Auschwitz

Scampata dalla shoah

Abitante storica della Garbatella, qui è tornata dopo il calvario del lager. Alla vigilia della liberazione di Roma fu presa per una delazione perché ebrea. Aveva 19  anni. Per 60 anni ha lavorato presso il nostro mercato rionale. “I tedeschi e i fascisti quanto erano cattivi!”

di Carolina Zincone

Io e Giancarlo eravamo un po’ emozionati. Lui la signora Enrica Zarfati – sopravvissuta ad Auschwitz ed abitante storica della Garbatella – l’aveva già incontrata e ci teneva a rivederla; io ne avevo sentito parlare e mi domandavo se sarei stata in grado di sollecitare un racconto di cui far tesoro senza riaprire vecchie ferite.
Le ferite sono interessanti, inutile nascondercelo. Ancor più interessanti se ci parlano di una storia terribile che vogliamo ascoltare perché fa paura, perché sembra impossibile, perché non vogliamo che si ripeta e perché in questo modo possiamo dire a chi è stato ferito quanto ci addolora che sia andata così. La scommessa, allora, consiste nel mostrarci curiosi, sì, ma anche rispettosi e, per questo, sinceramente vicini. Enrica Zarfati
Ogni persona, a modo suo, contribuisce a fare la Storia. C’è però qualcuno che la Storia l’ha subita più di altri e la cui memoria ci è particolarmente preziosa, al punto di volerla far nostra. La memoria di un singolo si trasforma così in memoria collettiva, in memoria di un popolo. E’ questo il caso di Enrica Zarfati e dei suoi ricordi che – lo si vede da subito – la signora non vede l’ora di condividere con noi.

 

Enrica ci aspettava a casa, in compagnia della sua cara e affezionata badante di origini ucraine. Una bella coppia, sembrerebbe, l’una fiera dell’altra. Tra di loro si chiamano Enrica e Irina ed entrambe hanno ricevuto – rispettivamente nel 2004 e nel 2005 – il “Premio Fantasia” della Garbatella, strumento di tutela della cultura popolare del quartiere, assegnato ogni anno a persone garbate e belle. Mentre chiacchieriamo, Irina interviene con conferme e precisazioni. I racconti di Enrica deve averli sentiti tante volte, sa che è diventata un personaggio quasi famoso, ricorda le interviste, i libri, i documentari fatti sulla base delle sue storie. E poi tutti i giorni, in salotto, si imbatte nella foto dell’ex sindaco Veltroni sorpreso in compagnia della signora Zarfati.
Ma anche Irina ha una storia. “Lei pure ha sofferto”, dice Enrica con complicità: “Quando scappavi, eh?”. Ci piacerebbe chiedere perché e dove scappasse Irina, ma la nostra visita al lotto 31, dove la Zarfati viveva e vive tuttora, suggerisce altre strade, che la nostra ospite ha quasi fretta di ripercorrere con noi: “Son passati tanti anni ma ricordo tutto come fosse il primo giorno!”. Ci dice che la cognata sta scrivendo un romanzo sulla sua storia “ma io non ho il coraggio di raccontare tutto”. In realtà il coraggio ce l’ha, eccome.
Non faccio in tempo a cambiare argomento per formulare una domanda che ci avvicini un po’ a quel 1944 di dolore, che Enrica aggiunge: “Il 16 ottobre ci fu il rastrellamento grande, al ghetto. Io no, io fui presa 7 mesi dopo. Ci hanno portato ad Auschwitz, che squallore!”. E così ci ricorda il motivo della nostra visita: Enrica Zarfati, abitante della Garbatella dall’età di anni 3, il 9 maggio del 1944, all’età di anni 21, fu presa e deportata ad Auschwitz, nella Polonia occupata, perché ebrea. “Che squallore!”, ripete, ed è curioso come sia il senso di squallore a riaffiorare per primo, più forte di tutti gli altri.Enrica Zarfati
Subito dopo, però, arriva l’impotenza, la sensazione di essere stata gabbata dal destino, la frustrazione di non essersela cavata solo per poco: “La mia è stata l’ultima partenza, vi rendete conto? Per un pelo m’hanno presa! Quando hanno liberato Roma, il 4 giugno, io ero ancora in viaggio per il Nord. Siamo stati 40 giorni fermi a Modena e lì è arrivata la notizia della liberazione, da mangiarsi le mani!!”.
Più che in viaggio, Enrica Zarfati era in tappa forzata: si trovava nel Campo poliziesco e di transito situato in località Fossoli, a circa sei chilometri da Carpi, da cui nel corso del 1944 transitarono 5.000 prigionieri politici e “razziali” che avevano come destinazione finale i campi di Auschwitz-Birkenau, Dachau, Buchenwald e Flossenburg. In sette mesi di attività del campo partirono 8 convogli ferroviari, 5 dei quali destinati ad Auschwitz. In uno dei convogli per Auschwitz avrebbe viaggiato Enrica Zarfati.
Dal 16 ottobre del 1943 la sua vita era cambiata, viveva nascosta, insieme al resto della famiglia: Enrica, che era la più grande, aveva tre sorelle e tre fratelli. A casa non ci si poteva più stare, così dapprima si erano sistemati insieme ai Pavoncello in una “grotta” della Circonvallazione  Ostiense, poi, con l’aiuto di altri vicini, si erano trasferiti in una fontana del lotto dove c’era una stanzetta segreta che le due famiglie avevano organizzato come un appartamento.
Ci vivevano stretti stretti in 16 – “a papà lo mozzicò pure un topo”, ricorda Enrica che di suo padre ha un ricordo davvero tenero e quasi protettivo – ma in questo modo tutte le volte che le guardie mandate dagli inquilini spioni erano andate a cercarli alla fontana non li avevano trovati.
Il 9 maggio, però, Enrica era sbucata dalla tana al momento sbagliato, per andare a recuperare una pagnotta tedesca comprata la sera avanti: “Chissà che sembrava questa pagnotta a quei tempi e con quella fame!
E’ così che m’hanno presa, dopo 7 mesi che scappavamo! Erano le 6 di mattina e noi lì ad implorare in ginocchio il maresciallo della pubblica sicurezza, a baciargli i piedi, a umiliarci: lasciateci, non c’ha visto nessuno!”. Lui, però, che non avrà avuto neanche 20 anni, evidentemente sapeva di essere stato visto, forse perché doveva essere tenuto d’occhio da chi l’aveva mandato lì. Per questo, mentre aspettava il comandante, era stato inesorabile: “Ormai non posso più lasciarvi”. Enrica racconta e commenta, commenta e racconta: “Boni so’ stati, eh?” “So’ stati angioletti! Quanto erano cattivi i fascisti, mamma mia! Je dispiace a lei che erano cattivi i fascisti?”.
E ancora, incredibilmente: “A me è dispiaciuto che dopo hanno perso il posto, ma dopo quello che era successo, come perdonarli?”. Enrica Zarfati
Alla domanda se nel quartiere qualcuno avesse cercato di proteggerli, la signora Enrica risponde istintivamente con un “Macché!!!!”, ma poi si corregge: “Chi sì e chi no”. Giancarlo ci rammenta che per aver nascosto gli ebrei sotto la chiesoletta don Alfredo Melani è stato riconosciuto come “Giusto tra le nazioni”, termine utilizzato per indicare i nonebrei che hanno agito in modo eroico a rischio della propria vita, per salvare la vita anche di un solo ebreo dal genocidio nazista.
Enrica lo sa, ricorda che in quel periodo i suoi fratelli passavano dal rifugio al Bar Lunik (quello della “nanetta”), dove il proprietario, Socrate, li proteggeva dando loro da mangiare. “Ma 7 mesi sono lunghi!”, aggiunge Enrica, quasi a dire che prima o poi qualcosa a qualcuno doveva succedere. E successe a lei.
Non si fermavano nemmeno di fronte ai bambini “i fascistacci che facevano la spia a rotta di collo”. Che poi magari non erano neanche fascisti, ma 5000 lire per ogni ebreo denunciato facevano gola a tutti e 16 in un colpo solo sarebbero stati un bel bottino. Quel giorno che “c’hanno preso come bestie a me e a una signora qua davanti, una di quei Pavoncello, porella, che aveva 50 e passa anni…A quella l’hanno bruciata subito, a quelli deboli, che stavano un po’giù, li facevano fuori presto … vedevi quelle fiamme, sentivi quella puzza…che si doveva vedere, nella civiltà!”.
Restiamo a bocca aperta: la Zarfati ci parla di gente “bruciata” (usa molto questa espressione che fa davvero spavento), dà per scontato che sappiamo perfettamente di cosa stia parlando e butta lì un commento sulla nostra civiltà.
Ricorda che all’epoca era una bambina, una bambina di 22 anni ebrea per caso: “eravamo ebrei perché c’avevano fatto così, ma sennò … non eravamo proprio attaccati alla religione… Eravamo ebrei per modo di dire, non frequentavamo spesso la sinagoga. Sia papà che mamma erano ebrei, ma lasciavano correre.”
Prima di trasferirsi alla Garbatella la famiglia viveva a Monte Savello, al ghetto, “ma Mussolini voleva liberare il Portico d’Ottavia – ricorda Enrica – e avevano fatto ‘sta zona. Non c’era niente qui, sa?
Ci abbiamo  trovato i contadini che coltivavano la terra sotto casa”. Non c’era una comunità ebraica ma c’era qualche ebreo nei paraggi. Il papà era commesso ai magazzini, poi il magazzino è fallito ed è rimasto senza lavoro: “Eh…era una tristezza, porello, si dava da fare per qualsiasi cosa ma era piccoletto…invece lei è alto! – dice la signora rivolgendosi a Giancarlo.
Era buono papà”. E poi ammette, con l’ironia che ormai sappiamo riconoscere: “Purtroppo abbiamo fatto proprio una gran bella vita …. che momenti che abbiamo passato! La fame. E adesso che potevamo stare bene sono tutti morti, ha capito?”. Adesso. Adesso sono trascorsi tanti anni, Enrica ne ha 86. Cos’è successo nel frattempo? Cos’è che rimpiange di più?
Rimpiange il fatto di aver avuto un’infanzia amara, soprattutto per i genitori. Rimpiange il fatto di aver dovuto smettere di studiare per lavorare e dare una mano a casa. Era stata una delle prime ad entrare nella scuola Michele Bianchi (ora Cesare Battisti) quando l’avevano aperta e ricorda con una punta d’orgoglio che al primo avviamento – l’avviamento al lavoro era la scuola media dove si forgiavano le nuove leve del lavoro nazionale – era la più brava. Ma quando hanno formato la scuola ebraica tutti i fratelli avevano preso ad andare lì, in tram, perché il pasto era garantito. Dopodiché aveva dovuto abbandonare gli studi del tutto. Quando aveva accampato la scusa che non poteva più frequentare la scuola perché non aveva le scarpe per arrivarci, le maestre avevano insistito perché lei restasse e le avevano portato a casa scarpe e calzini.
Ma ormai la decisione era presa. Non aveva ancora 11 anni quando si mise a lavorare a macchina da una signora lì vicino: “Me dava ‘na cretinata”. Però è stata sia “piccola italiana” che “giovane italiana” e oggi sorride un po’ vergognosa confessando che per quei ruoli si sentiva un po’ “piccoletta” di statura (anche se aveva una sorella ancora più piccina).
Riferendosi al fascismo e a quei costumi, ci dice che “là tutti dovevano essere di quell’idea, compresi gli ebrei. Ma era una cosa civile, normale, come adesso”. I guai li causa Hitler, quando obbliga Mussolini (a questo punto “maledetto”) a fare  quello che ha fatto. Ma ecco che la signora Enrica si interrompe di nuovo e chiede a Giancarlo: “Gli voleva bene lei a Mussolini?”. “No, perché – continua – da principio era bravo, faceva tutte le cose per bene, ma quando ha cominciato a conoscere i tedeschi…s’è guastato, s’è venduto!
E allora “peggio per lui”, sentenzia Enrica, “ha fatto una brutta fine: prima l’hanno ammazzato, poi l’hanno messo a testa in giù, e pure Claretta, eh? L’amica insomma…ce n’aveva di donne, eh?”. Dette così, le cose tremende e tristemente note su cui Enrica divaga sembrano confidenze vicine al pettegolezzo.
Diverso il ricordo del bombardamento del 7 marzo 44. L’infanzia era finita, le leggi razziali in pieno vigore e il nemico alle porte. Quale nemico?
Più di un nemico. “Quel giorno”, ricorda Enrica, “io pigliai per mano mio fratello che aveva 6 anni e mia sorella che ne aveva 8 e andammo a vedere l’Albergo Bianco, la gente che era morta…invece di prendere la Stazione Ostiense gli americani avevano preso l’Albergo”. Fuoco amico, c’era anche allora. Bombardamenti chirurgici riusciti male. Non come le mitragliate dei tedeschi, che invece erano ben mirate e colpivano anche i bambini.
Lei, ancora ragazzina, il 9 maggio era finita a Regina Coeli, dove rimase una settimana finchè non “ci impacchettarono per spedirci tutti nel campo di concentramento”. A Fossoli, a quanto pare, si stava meglio che ad Auschwitz. Enrica ricorda che siccome avevano preso anche “un sacco di ricconi ebrei”, lei si era potuta industriare e, “lavando i panni dei signoroni” rimediava sempre qualcosa da mangiare. Questo nei 45 giorni in cui restò lì in attesa che si formasse un convoglio di 800 persone.
Dopodiché quel viaggio allucinante di “9/12 giorni…come bestie nei vagoni del treno, che ci facevamo tutto addosso ed eravamo pieni di insetti nei capelli”. Per non parlare dell’arrivo ad Auschwitz: “Un dramma”. Fu allora che, in fila per 5, i vecchi cominciarono ad essere divisi dai giovani, le mogli dai mariti, i figli dai genitori, Enrica dalla signora Pavoncello, che teneva a braccetto, come facevano le altre ragazze con le loro mamme. Non l’avrebbe più rivista, come non avrebbero più visto i loro cari molti di coloro che all’inizio chiedevano ancora disperatamente dove fossero finiti.

Enrica Zarfati

Come gli altri – tutto come gli altri – Enrica fu rapata a zero, svestita e rivestita da carcerata. E poi le venne fatto il tatuaggio: “Ecco, questo era il numero mio, A-8506. Ci chiamavano per numero, in tedesco, e se non ce l’imparavamo erano botte, botte e ancora botte”. Anche gli altri ricordi assomigliano a tutti gli altri ricordi degli ebrei sopravvissuti ai campi: la marescialla tedesca che gliene diede tante, “ma tante tante”, perché aveva rubato due bucce di patate per sfamarsi: “Avevamo sempre la cazzarola legata a un fianco, ma ci spettava una zuppa al giorno che certo non bastava”. Quei lavori forzati, “lì a picconare e tagliare rametti, che neanche loro sapevano quello che ci facevano fare”; la paura di morire da un momento all’altro, “come quella volta che in venti fummo portate davanti al crematorio per poi scoprire che dovevamo solo caricare dei secchi d’acqua per i vagoni tedeschi che evacuavano”; le kapò, “le più cattive – prigioniere polacche che per darsi delle arie si comportavano peggio dei tedeschi ma poi tanto al crematorio c’andavano pure loro: fu una di loro che rispose a una bambina in cerca della mamma indicando le fiamme alte del crematorio”.
In queste condizioni, di fronte a tanto orrore, non c’era modo di pensare a chi era lontano, a chi era rimasto a casa, alla Garbatella: “Lì non pensavo ai miei, non ricordavo più niente, pensavo solo a trovare le bucce di patata nell’immondizia per mangiarmele”. Amori poi, nessuno. “Che scherziamo? Ognuno pensava per sé, si stava sempre tra la vita e la morte perché tutti i giorni si faceva una selezione. Facevano l’appello, passava il tedesco o la tedesca e faceva: “Quello quello quello, via via via!”. Seguivano urla e disperazione.
Impossibile nutrire sentimenti che andassero oltre l’istinto di sopravvivenza. Immaginiamo allora cosa significò, per chi era ancora vivo, l’evacuazione del campo avvenuta in concomitanza con l’avanzata dell’Armata Rossa: “Notizie non ne arrivavano, non sapevamo niente, niente, niente”. Ovviamente, non capivano cosa stesse succedendo e quale destino li attendesse. Nel novembre 1944 Himmler, ideatore della “soluzione finale” per gli ebrei, aveva già dato ordine di cessare le esecuzioni nelle camere a gas e di demolire sia le camere a gas che i forni crematori, allo scopo di nascondere le prove del genocidio. A quell’epoca ad Auschwitz erano stati uccisi oltre 1 milione di esseri umani. Con la marcia della morte del gennaio 1945, che vide partire da Auschwitz circa 80.000 sopravvissuti, il campo si svuotò definitivamente e i prigionieri furono trasferiti in territorio tedesco.
Enrica sopportò anche la durissima marcia durante la quale morirono in molti e finì nel campo di Ravensbrück, che “pareva un fiore vicino ad Auschwitz”. Ma la liberazione non arrivava e, di fatto, non arrivò nemmeno con i russi, alla fine d’aprile: “Quando i russi ci hanno “liberato” siamo rimasti 4 mesi là perché non ci rimpatriavano. Mi chiedete che effetto ci fecero? Erano severi, sa? All’inizio ci fecero lavorare sodo pure loro, eh? Poi si addolcirono”.
E poi, finalmente, giunse il momento del ritorno a casa. Enrica ricorda che a Roma ormai c’erano gli Alleati: “I ragazzi che c’hanno portato, a me e all’amica mia Costanza, che è morta, porella, 5 anni fa, erano soldati prigionieri pure loro. Ci hanno lasciato con un carro bestiame a Ostiense. Sembravamo due sceme, non sapevamo bene dove andare, chiedevamo notizie di questo e di quello, di chi era stato preso e di chi era tornato. Dopodiché siamo andate al ghetto perché lei viveva lì. Io non ce la facevo più a muovermi, volevo morire là. Lei mi ha trascinato via, era piena di vitalità. Dico la verità: m’ha salvato lei, sennò io restavo là. Eravamo come sorelle”.
Nessuno sperava più di rivederla, Enrica: “La cosa più triste, al ritorno, è stata non trovare più papà. Dal dispiacere si era ammalato di quel malaccio e 9 mesi prima che tornassi era morto. A quanto pare, le sue ultime parole sono state: ‘Ho salvato Enrica, ho salvato Enrica, ho salvato Enrica!’. E forse mi ha salvato davvero, visto che quel giorno sono stata trasferita. Era giovane e non l’ho più trovato, i pianti… E’ stata una cosa triste sa? Io non la posso dimenticare”. Che tenerezza questa complicità, questa simpatia che Enrica cerca e riesce facilmente a stabilire con noi.
Quando è tornata, la mamma non c’era perché le avevano detto che era tornata la figlia ed era andata in sinagoga a cercarla: “Non ricordo come e dove l’ho incontrata, va bene?”.
Che strano, un pizzico di senso di colpa, il desiderio di ricordare un momento bellissimo e il dispiacere di non riuscirci.
La signora Zarfati da quel giorno non si è più mossa dalla Garbatella: “A me mi piace Garbatella. Gli sfollati si erano impadroniti di molte case, mio fratello ne aveva dovuti cacciare tanti per difendere la nostra”. Una volta rientrata, si era subito rimessa a lavorare: “Proprio il giorno appresso che sono tornata dal campo”. Lavorava a casa con la macchina da cucire, faceva i pantaloni, insieme alle sorelle. Ricominciava a vivere. Pagavano poco, però, e così la mamma fece domanda per la licenza al mercato. Le donne di casa si ritrovarono tutte là, mentre “i maschi facevano un altro mestiere”.
“Stavamo bene”, ricorda Enrica, “ma poi ho cominciato a perderli i fratelli…”. Torna il rimpianto, la consapevolezza di aver lasciato ad Auschwitz un pezzo di vita impossibile da recuperare in seguito. Perché la vita va avanti, ma si comincia anche a morire. Muoiono amici, parenti, fratelli che Enrica ha la netta sensazione di non essersi goduta abbastanza e da cui era stata lontana quando era via, in quell’anno e mezzo lungo un secolo.
Enrica ha ricordi appiattiti: la situazione di adesso che è rimasta sola con il fratello più giovane si sovrappone a quella del lager. Invece, nel frattempo, Enrica è diventata un personaggio al mercato, dove ha lavorato per 60 anni vendendo di tutto: all’inizio filo a metraggio, poi qualche cosetta, maglie, calzoni, chiusure lampo, “finché non è diventato un bel negozietto…18 anni all’aperto e poi al coperto, poi c’hanno buttato fuori un’altra volta e poi…chi ci lavora adesso al mercato sta ancora allo scoperto”. Ha smesso di lavorare quando ha compiuto 80 anni, però “avrei lavorato ancora se non mi fossi rotta prima una gamba e poi l’altra, sempre cascando…Tutti conoscevo, m’hanno fregato tanti milioni.
Segnavano e poi non pagavano, dopo aver preso la mejo robba!”. Ma non c’è niente da fare, i suoi ricordi più forti, quelli che non la fanno dormire di notte e la fanno crollare di sonno la mattina, sono quelli di Auschwitz: “Dimenticare non posso”. Anche per questo collabora con l’associazione il Tempo Ritrovato ed è felice quando il coro di Fatagarbatella le canta serenate.
Per tener viva la memoria, anche se questo non l’aiuta a perdonare: “Non potrò mai perdonare i tedeschi, mai, mai, mai! Troppo cattivi sono. Non solo con noi ma con tutti. Lei li perdonerebbe, lei?”. Difficile rispondere a questa domanda e difficile rispondere all’ultima che fa, prima di salutarci: “Racconterà tutto bene?”

Copyright tutti i diritti riservati – Cara Garbatella Anno 7 – Febbraio 2010

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail