Due singolari “recenti” storie riguardanti l’antica Via Appia
Quando tentarono di demolire Cecilia Metella
La Regina viarum, che sfiora il territorio del nostro quartiere, è ricca di storie, di miti e di misteri che riguardano anche tempi più vicini a noi rispetto alla sua venerabile età. Nel 1400 fu rinvenuto un sarcofago: dentro, una fanciulla morta che pareva viva. Un secolo dopo un nobile romano salvò appena in tempo il celebre mausoleo condannato alla distruzione
di Cosmo Barbato
Via Appia, una delle più antiche strade che si dipartono da Roma e, ai suoi tempi, certamente la più importante, al punto di essersi guadagnato l’appellativo di Regina viarum, è ricca di storie, di miti, di leggende e di misteri. Il mito più antico: nell’VII secolo a.C., lungo il suo tracciato che forse costituiva già un primitivo percorso tra Roma e Albalonga (zona dei Castelli), sarebbe avvenuto il duello fra i tre fratelli albesi Curiazi e i tre fratelli romani Orazi, conclusosi con la vittoria di questi ultimi. …..
Due singolari “recenti” storie riguardanti l’antica Via Appia
Quando tentarono di demolire Cecilia Metella
La Regina viarum, che sfiora il territorio del nostro quartiere, è ricca di storie, di miti e di misteri che riguardano anche tempi più vicini a noi rispetto alla sua venerabile età. Nel 1400 fu rinvenuto un sarcofago: dentro, una fanciulla morta che pareva viva. Un secolo dopo un nobile romano salvò appena in tempo il celebre mausoleo condannato alla distruzione
di Cosmo Barbato
Via Appia, una delle più antiche strade che si dipartono da Roma e, ai suoi tempi, certamente la più importante, al punto di essersi guadagnato l’appellativo di Regina viarum, è ricca di storie, di miti, di leggende e di misteri. Il mito più antico: nell’VII secolo a.C., lungo il suo tracciato che forse costituiva già un primitivo percorso tra Roma e Albalonga (zona dei Castelli), sarebbe avvenuto il duello fra i tre fratelli albesi Curiazi e i tre fratelli romani Orazi, conclusosi con la vittoria di questi ultimi.
L’esito di quel duello avrebbe determinato la definitiva prevalenza di Roma su Albalonga, la principale città della Lega Latina (la strada vera e propria sarà fondata ben tre secoli dopo, nel 312 a.C., dall’edile Appio Claudio, che le lasciò anche il nome). Ma non sono queste importanti storie o leggende che vogliamo raccontare oggi. Vogliamo invece ricordare due episodi riportati dalle cronache, che riguardano fatti più recenti – si fa per dire – attinenti l’antica via.
Nel sarcofago sembrava viva
Il 18 aprile 1485, in uno scavo effettuato presso un casale di proprietà della chiesa di Santa Maria Nuova, in un luogo non molto distante dal mausoleo di Cecilia
Metella, venne scoperto un sarcofago anonimo di marmo contenente un corpo femminile. Ce ne parla il diarista romano Gaspare Pontani., che nel suo diario nota il ritrovamento di “un corpo intero in un pilo di marmo”.
Più particolareggiata la cronaca di un altro diarista, Stefano Infessura: “Aperta la cassa marmorea, si trovò un corpo femminile intatto, avvolto in una mistura aromatica: aveva una cuffia d’oro in capo e i biondi capelli sulla fronte e dal colorito della carne pareva viva. Gli occhi e la bocca erano semi aperti: tirando in fuori la lingua, questa tornava al posto suo appena lasciata. Denti bianchi e solidi, le unghia bianche e fermissime.
Le braccia si potevano sollevare e abbassare, come se non fosse morta”.
Il singolare rinvenimento fece in un baleno il giro della città, sicché folle di curiosi si precipitarono sul luogo della scoperta. Su richiesta generale, anche per risparmiare ai visitatori la fatica di raggiungere lo scavo sull’Appia, le autorità cittadine si risolsero di trasportare l’arca con il corpo in Campidoglio, dove fu esposto nel cortile del palazzo dei Conservatori. Il corpo, esposto per parecchi giorni, a contatto dell’aria si scurì ma non si alterò.
Sempre dal diario di Stefano Infessura apprendiamo che si trattava di una adolescente di 12 o 13 anni, “tanto bella da non potersi descrivere: e se qualcuno avesse provato a scrivere e a parlare della sua bellezza, non sarebbe stato creduto da quelli che non avevano potuto vederla”.
Si parlò di prodigio. La fantasia popolare si inventò, senza alcun riscontro reale, che quel corpo leggiadro fosse appartenuto a Tulliola, l’amata figlia di Cicerone morta appunto in giovane età, la cui tomba però si sarebbe dovuta trovare nella zona tuscolana, dove era deceduta nella villa paterna.
A un certo punto il fanatismo sembrò prendere il sopravvento, al punto che se ne preoccuparono i Conservatori per l’ordine pubblico e il papa, Innocenzo VIII Cybo, per motivi religiosi. Risultato, il corpo della fanciulla fu rimosso nottetempo e sepolto in un luogo rimasto segreto fuori Porta Pinciana. La qual cosa creò immediatamente molto disappunto nel pubblico.
Ma poi piano piano il popolo “fanatico e superstizioso” dimenticò.
E il papa disse si alla demolizione
Sempre sulle vicende dell’Appia, veniamo ora ad un altro episodio: il rischio che corse il celebre mausoleo di Cecilia Metella, uno dei monumenti-simbolo della città di Roma, di finire ridotto in calce o in materiale da costruzione.
Come è indicato in una tabella posta in alto sul cilindro del mausoleo, la tomba ospitava i resti di Cecilia, figlia di Quinto Cecilio Metello Cretico e moglie di Crasso,
probabilmente il figlio maggiore di quel Marco Licinio Crasso, triunviro con Pompeo e Cesare, feroce repressore della rivolta schiavista di Spartaco. Il monumento è datato tra il 50 e il 40 a.C.
Già trasformato in fortezza per il controllo dell’Appia dai bizantini, era passato poi ai Conti di Tuscolo e infine dal 1299, durante il regno di Bonifacio VIII Caetani, alla sua potente famiglia. Danneggiato da varie spoliazioni, dal passaggio del corteo di Carlo V nel 1536 e da quello di Marcantonio Colonna nel 1571, divenuto asilo di malfattori, ne fu decretata la demolizione dal pontefice Sisto V nel 1589. Ne erano proprietari in quel momento due famiglie della borghesia romana. Per ottenere licenza di demolire presentarono al papa questa domanda: “G.B.Mottino e Girolamo Leni e fratelli sono proprietari da antico tempo del casale di Capo di Bove, dov’è una sepoltura, ovvero Torrione, quale gli tornerai molto comodo poterlo spogliare.
Supplicano umilmente V.S. Ill.ma si degni di fargli grazia con Sua Santità che gli concedino licenza, acciò li Signori Conservatori non se gli oppongano, col dire che sia antiquità: il che non doveriano per essere fuori di Roma e non essere in luogo pubblico, e altre ne siano, una per la strada di Tivoli, un’altra di marmo al Ponte dell’Arco, un’altra Casal Ritonno e molte altre.
Il che facendo grazia Sua Santità, crederanno anche il Popolo Romano sia per compiacerneli, e il tutto riceveranno per grazia speciale di N. Signore, e di continuo pregheranno Iddio per la conservazione Sua, ed a V.S.Ill.ma conceda lunga e felicissima vita”.
Sisto V, che non aveva mai mostrato di amare le vestigia della Roma pagana e che riteneva giusto abbattere gli antichi monumenti per crearne di nuovi (sotto il suo regno corse grave pericolo anche il Colosseo), fece rispondere col seguente rescritto: “Nostro Signore concede la grazia purché il popolo romano se ne contenti”.
Il Senato incredibilmente decretò la demolizione. L’opera era già iniziata quando ci fu una specie di rivolta popolare della quale si fece portavoce il Conservatore Claudio Lancellotti, assecondato dai colleghi Ottavio Gabrielli e Alessandro Gottifredi.
I picconi furono fermati e il mausoleo di Cecilia Metella fu salvo.
Ma il celebre monumento corse ancora il rischio di divenire una cava di travertino. Fu sotto Urbano VIII Barberini (1623-1644), quando questo pontefice decise di porre mano al rifacimento della Fontana di Trevi, dandone incarico a Gian Lorenzo Bernini. Al celebre architetto concesse un permesso scritto per demolire “un monumento antico di forma rotonda, di circonferenza grandissima e di bellissimo marmo presso San Sebastiano, detto Capo di Bove”, cioè il nostro mausoleo (“Ciò che non fecero i barbari fecero i Barberini!”).
Anche in quest’altra circostanza ci fu resistenza popolare che valse a sospendere le demolizioni già iniziate.
La morte di Urbano VIII fece poi tramontare il progetto berniniano per la Fontana di Trevi, che verrà ripreso nel 1733 da altri papi e dall’architetto Nicola Salvi con altri travertini, ma non con quelli di Cecilia Metella.
Copyright tutti i diritti riservati – Cara Garbatella Anno 8 – Aprile 2011





