Garbatella, terra di missionari almeno nella toponomastica
di Enrico Recchi
Come anticipato nel precedente numero di “Cara Garbatella”, un’altra categoria di personaggi presente nella toponomastica del nostro quartiere è quella dei missionari, alcuni dei quali sono poi assurti anche al livello di Santi. Quindi parliamo di un gruppo nutrito e molto particolare.
Anche al giorno d’oggi fare il missionario, generalmente in quello che viene definitoTerzo Mondo, non è facile. Partire per portare le idee della propria religione, quella che sia, in terre inospitali, lontane, dove ci sono malattie endemiche gravi, dove spesso ci sono regimi politici definibili quantomeno “difficili”, comporta un impegno che anche nel terzo millennio solo chi ha dentro di sè una forte passione e convinzione alimentate dalla fede può svolgere. Figuriamoci cosa poteva voler dire essere missionari nei secoli scorsi, come lo sono stati i personaggi cui sono intitolate molte vie della Garbatella.
Significava essere convinti e testardi nelle proprie idee, affrontare difficoltà quotidiane da quella della lingua e quindi della comunicazione fino, a quelle che potevano diventare addirittura mortali. Insomma un’altra bella categoria di “capocce dure” che ben figura ed onora il nostro quartiere e ben si allinea a quello che è ancora il carattere del “garbatellaro” tipo.
Partiamo da Roberto de’ Nobili, che dà il nome alla via un tempo percorsa dai tram che lasciavano il capolinea di Via Giacomo Rho. Di famiglia nobile toscana, nipote di San Roberto Bellarmino, era entrato presto nell’ordine dei Gesuiti, lo stesso di Papa Francesco. Mandato nel sud dell’India nel 1605, decise che per cercare di avvicinare la popolazione locale al Vangelo si dovesse essere più simili e quindi più vicini ai modi di vivere del posto. Quindi, abolito l’abito nero che impressionava negativamente, si vestì come un sadhu, ovvero come un monaco induista e successivamente come un brahmino, un sacerdote locale di alto livello, per poter entrare in contatto anche con i ceti più elevati. Sempre per essere ben accettato si radeva la testa lasciando solo un piccolo ciuffo di capelli proprio come facevano i sacerdoti locali. Allo stesso tempo imparò il sanscrito e il tamil (la lingua del sud dell’India) comunicando così direttamente senza intermediari.
Dovette coniare anche parole nuove nella lingua tamil, parole che ancora non esistevano ma che gli erano necessarie per predicare. Morì quasi cieco in India nel 1656.
Altro personaggio eccezionale è Guglielmo Massaia, il frate cappuccino, l’ordine francescano di San Pio da Pietrelcina, che dà il nome alla via forse più lunga della Garbatella dopo la Circonvallazione Ostiense. Di famiglia astigiana, diventò frate molto giovane e partì nel 1846 con l’obiettivo di raggiungere la popolazione dei Galla nel nord dell’Etiopia.
Arrivò a destinazione con un faticosissimo ed avventuroso viaggio svolto con il rigore francescano “elemosinando di porta in porta”, dapprima risalendo il Nilo per poi passare attraverso il deserto. Trascorse 35 anni in quel paese. Non avendo a disposizione i mezzi classici dell’educazione (libri), scrisse personalmente i manuali scolastici e compose la grammatica della lingua oromo.
Scrisse anche il primo catechismo in lingua galla e fondò diverse missioni dove venivano prestate anche cure mediche tanto da prendere il soprannome locale di “Padre del Fantatà” (Signore del vaiolo). Fondò la missione di Finfinnì e su quello stesso posto venne poi fondata la città che divenne nel 1889 la capitale dell’Etipioa ovvero Addis Abeba (Nuovo Fiore).
Ma non è facile scegliere di quale personaggio parlare quando si tratta di persone come i missionari ed i santi delle vie della Garbatella. Qui si tratta di persone che come minimo hanno raggiunto le loro destinazioni attraversando un deserto o una landa ghiacciata, hanno passato periodi di detenzione per aver professato le loro idee, hanno fondato città ed ospedali, hanno assistito migliaia di poveri e malati. Un novero quindi di personaggi da ammirare.
L’ultima di cui parliamo è una donna: Francesca Saverio Cabrini.
Si, avete letto bene, il secondo nome è Saverio al maschile e non Saveria come indicato nelle targhe stradali (la via è piccola ed abbastanza nascosta, vicino al Teatro Ambra), perché questa donna, diventata Santa nel 1946, scelse come secondo nome Saverio in onore di San Francesco Saverio missionario in Estremo oriente. Nata nel 1850 e diventata suora nel 1874, all’età di 49 anni partiva per l’America per fornire assistenza ai numerosi emigranti italiani che attraversavano l’oceano in cerca di fortuna.
Per primo aprì un collegio femminile in Minnesota, che diventò subito un modello di educazione al quale si iscrissero ragazze di famiglie cattoliche e non. Seguirono molti altri centri simili in tutta l’America. Fondò la congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, prima compagnia femminile ad affrontare l’impegno missionario, generalmente prerogativa maschile. Assieme alle opere di assistenza caritative le missionarie offrivano agli emigranti corsi di lingua, assistenza burocratica e legale, corrispondenza con le famiglie. Presa la cittadinanza americana è diventata nel 1946 Santa ed in questo modo è stata anche la prima donna del nuovo continente ad avere questo riconoscimento.
Non a caso fino al 2008 nella città di New York è esistito un ospedale che portava il nome di questa donna fantastica. Poi per ragioni economiche lo stato di New York non ha più dato sovvenzioni all’ospedale che è stato chiuso. Ma ancora oggi c’è un altro ospedale che si chiama “Santa Cabrini” a Montreal in Canada.
Scrivendo queste poche righe mi vengono facilmente alla mente i problemi che oggi stiamo vivendo in Italia.
Flussi di migranti da gestire, ospedali che vengono chiusi per ragioni economiche, persone che aiutano il prossimo senza distinzione. Storie di attualità di uomini e donne nel nostro paese…nel nostro quartiere.
Copyright tutti i diritti riservati – Cara Garbatella Anno 12 – Aprile 2016