San Francesco Saverio
di Enrico Recchi
San Francesco Saverio è stata la prima chiesa parrocchiale della Garbatella, in un quartiere dove la presenza dei sacerdoti, fino all’inizio degli anni Trenta, era limitata al presidio della storica “chiesoletta” di Sant’Isidoro ed Eurosia su via delle Sette chiese. Costruita tra il 1931 e il 1933, quando fu eretta a sede parrocchiale, su progetto dell’architetto Alberto Calza Bini domina piazza Damiano Sauli insieme all’imponente edificio scolastico “Cesare Battisti”.
La posizione della chiesa nel quartiere è davvero strategica. Infatti, insieme alla adiacente scuola elementare, caratterizza l’intera piazza, che può essere considerata il centro dell’urbanizzazione della Garbatella. La piazza diventa, così, quasi uno spazio ideale con le case del lotto XIX, progettate da O. Casali, sullo sfondo a fare da quinta scenografica. L’edificio razionalista, ultimato nel 1940, con i suoi archi che conducono verso via Magnaghi fa da separazione tra il nuovo spazio della piazza e i lotti alle spalle costituiti dai villini residenziali degli anni Venti. Ma chi era il santo a cui è stata intitolata la chiesa?
Francisco de Jasso Azpilicueta Atondo y Aznares de Javier, comunemente noto con il nome di Francesco Saverio, è stato un missionario gesuita assai attivo nella diffusione del cristianesimo in Asia. Nato nel 1506 da nobile famiglia, era stato poi costretto a fuggire dalla Spagna quando la sua casata era caduta in disgrazia perdendo tutti i propri beni. Rifugiatosi in Francia, aveva studiato teologia alla Sorbona di Parigi, dove conobbe Ignazio di Loyola, al quale si legò partecipando alla fondazione della Compagnia di Gesù.
Su richiesta del re del Portogallo, Papa Paolo III decise di inviare missionari per evangelizzare le nuove colonie nelle Indie Orientali. Francesco quindi partì da Lisbona nel 1541 ed arrivò nella colonia di Goa in India dopo un anno di viaggio. Poi da qui portò il Vangelo anche a Taiwan e nelle Filippine. Successivamente arrivò in Malesia e in Giappone nel 1549, ma ammalatosi morì nell’isola cinese di Sancian il 3 dicembre 1552. Venne sepolto nella chiesa dei Gesuiti di Goa, ma una sua reliquia è conservata a Roma nella chiesa del Gesù, chiesa madre dell’ordine.
Fu fatto santo assieme a Ignazio da Loyola nel 1662 da Papa Gregorio XV. Festeggiato il 3 dicembre è considerato il patrono delle missioni ed ecco spiegato anche perché la chiesa, consacrata nel 1939, venne intitolata al missionario spagnolo in un quartiere dove la toponomastica è dedicata in parte proprio ai missionari cattolici nel mondo.
La chiesa non è composta soltanto dall’edificio di culto vero e proprio, ma anche dai locali parrocchiali che si trovano nei due corpi laterali lungo via G. Rho e via D. Comboni. Alle sue spalle oggi si trova il teatro Garbatella, un tempo sede del cinema parrocchiale.
La facciata con tre entrate ha due colonne, che incorniciano l’ingresso principale con intorno paraste e decorazioni in travertino che risaltano sulla struttura di mattoni. In cima sorge la cupola monumentale e maestosa, che è ben visibile da tutto il quartiere.
L’interno, a croce latina, è composto da tre navate con quella centrale dalla volta a botte e in fondo un corto transetto. L’ambiente è molto luminoso grazie alle alte finestre del tamburo e a quelle più piccole delle navate laterali. All’interno non ci sono decorazioni di rilievo.
La piazza è davvero un esempio di come venivano concepiti gli spazi urbani nei primi decenni del XX° secolo: la Scuola, la Chiesa, i Giardini, le Case di abitazione a delimitare gli spazi di un centro di aggregazione della comunità. Per molto tempo una simile concezione urbanistica è stata criticata, anche per i risvolti politico ideologici che rappresentava, per essere poi rivalutata ai nostri giorni. Un pensiero a tutti quelli che per lunghi anni hanno criticato sistematicamente e aprioristicamente la Garbatella per come era stata costruita e concepita senza riflettere minimamente su come ci avevano vissuto bene i suoi abitanti (e ci vivono bene ancor oggi). Un raffronto con le attuali periferie romane oggi risulterebbe davvero impietoso.