Disquisizione sul “sesso” della torre medioevale dirimpettaia della Garbatella
Tormarancia o Tormarancio?
di Cosmo Barbato
Cominciamo col demolire una credenza consolidata. La Tormarancia attuale non è quella “originale”, nel senso che è esistita un’altra Tormarancia, situata non tanto vicino alla nostra ma nella stessa tenuta, crollata o distrutta non sappiamo quando, forse nel XIV secolo, della quale però si sono ritrovate poderose tracce di fondazione all’interno del Parco di Tormarancia.
Il nome di Tormarancia si trasferì nel tempo all’attuale torre, la più importante tra quelle superstiti del circondario. Da quell’imprecisato momento in poi la nostra torre, indicata nella cartografia antica come Tor delle vigne, cominciò a chiamarsi Tormarancia: raccolse cioè il nome della distrutta consorella maggiore.
Da questo punto in poi, quando parliamo di Tormarancia, ci riferiamo alla torre che svetta sulla collinetta che si affianca al bel Viale di Tormarancia. “Maschio o femmina”?
Si può disquisire del “sesso” di una torre? La toponomastica moderna si è già pronunciata: “femmina”, stando al nome del Viale.
La cartografia antica chiama la nostra torre, almeno fino al 1453, Tor delle vigne, pare per via della fertilità del territorio: vi sgorgano infatti tre sorgenti ed è attraversata dal Fosso di Tor Carbone, oggi in parte ricoperto (per anni le sue frequenti esondazioni allagavano Shangai, la misera borgata oggi scomparsa, che si era andata formando nella seconda metà degli anni Venti del secolo scorso).
In una carta del 1480 appare per la prima volta il nome di Tormarancia riferito alla Tor delle vigne e da quel momento in poi sempre così, “Tormarancia” e mai “Tormarancio” (fatta eccezione per un modo di dire popolaresco degli anni 30/40 del secolo scorso dei vecchi abitanti di Shangai: “Tor marancio” o addirittura “Tor m’arrangio”, con riferimento alla vita precaria che si conduceva nella borgata). Tormarancia è anche il toponimo che riporta il massimo studioso della Campagna romana, Giuseppe Tomassetti (1910/1926).
Dello stesso avviso è anche un altro ricercatore, Giovanni M. De Rossi, nel suo “Torri medioevali della campagna romana”(1981). “Lo stradario di Roma” di Benedetto Blasi (1922) cita Tormarancia. Lo stesso fa Sergio Delli nel suo monumentale “Le strade di Roma” (1989). Viene definita Tenuta di Tormarancia la porzione di territorio aggregato di recente al Parco dell’Appia Antica. E Tormarancia si chiamava la tenuta di 232 ettari alla quale, tanto la prima torre quanto la nostra, facevano la guardia. Ma perché quel “marancia”?
Una prima osservazione: “marancia”, come aggettivo del sostantivo femminile “torre”, non poteva che essere femminile anch’esso.
Si è appurato che in antico, cioè nel III secolo dopo Cristo, proprietaria del fondo fosse la famiglia senatoria dei Numisi, che ha lasciato nel territorio non poche importanti testimonianze archeologiche, oggi quasi tutte esposte ai Musei Vaticani. Si è immaginato che quella grande proprietà sia pervenuta successivamente a un ricco liberto di nome Amaranthus. Sicché dal suo nome la tenuta si chiamò inizialmente “praedium Amaranthianum”, cioè “Fondo di Amaranto”. Quando, nel 1200, fu eretta la prima torre così come anche la nostra (probabilmente dai potenti Conti di Tuscolo), nel tempo l’aggettivo “Amaranthianum” riferito al fondo si trasferì alla torre, passando ovviamente al femminile.
Le torri avevano una funzione giurisdizionale, cioè ribadivano il possesso su una proprietà (come mettere il cappello su una sedia). Ma avevano anche una funzione semaforica: nella
campagna romana, dopo l’incursione saracena giunta dal mare del IX secolo che colpì le basiliche di San Pietro e di San Paolo, poste fuori delle mura, si andò creando un sistema di torri di segnalazione con fuochi (di notte) e con fumi (di giorno) per allertare la città nel caso di un nuovo sbarco o di una delle frequenti scorrerie arabe lungo la costa. La nostra torre ha base quadrata di 6 metri per lato. E’ posta in cima a una collina a 800 metri dalla Via Ardeatina e a poco di più dall’Ostiense.
Alta 15 metri, poteva essere in grado di segnalare con le numerose altre torri dislocate lungo l’Ardeatina e l’Appia Antica. L’ipotesi della derivazione dal nome della tenuta (e quindi della torre) da quello del liberto Amaranthus è tutt’altro che provata, però finora sembra la più plausibile.
Scartata un’altra che farebbe riferimento al colore rossiccio (con qualche forzatura, amaranto) dei blocchetti di tufo con i quali è costruita la torre, come quasi tutti gli edifici medioevali coevi di Roma e della Campagna romana.
Lunga è la storia della nostra torre.
Nel tempo fu dei Bottoni, dei Leni, dei Tebaldi. Nel 1470 un Tebaldi vendette parte della tenuta all’ospedale di Santa Santorun (l’attuale San Giovanni) e 18 anni dopo un Leni vendette allo stesso ospedale un’altra parte della tenuta. In precedenza, sotto il papa Nicolò V (1447/1455), la torre dovette subire un restauro, a giudicare da una piccola lapide oggi scomparsa recante il monogramma del pontefice: PPNV, cioè Papa Nicolò V. I romani, interpretando sarcasticamente quella sigla, peraltro riportata in tutte le opere edificate o restaurate in quegli anni, la lessero come “Poco Pane Niente Vino”, alludendo al fiscalismo di quel pontefice.
Agli inizi dell’800 poi la grande proprietà fu acquistata da una facoltosa nobildonna, Marianna di Savoia contessa di Chablais, figlia di Vittorio Amedeo III re di Sardegna, che la utilizzò proficuamente come cava di pozzolana, come fertile tenuta agricola e, non ultimo, come campo di importanti scavi archeologici.
In conclusione, torniamo al “sesso” della nostra torre. Che sia esistito o no quel liberto Amaranthus, che avrebbe trasmesso il suo nome alla tenuta e alla torre, certo è che quel “marancia” è la contrazione dell’aggettivo “amaranziana” relativo al sostantivo “torre”: femminile il sostantivo, necessariamente femminile l’aggettivo.
Copyright tutti i diritti riservati – Cara Garbatella Anno 9 – Aprile 2013