Un racconto natalizio della scrittrice Maria Jatosti

Un racconto natalizio della scrittrice Maria JatostiMaria Iatosti

 

Anche quest’anno, come per i precedenti Natale, la scrittrice e poeta Maria Jatosti, nostra concittadina per tutti gli anni della sua giovinezza, ha accolto il nostro invito di dedicare ai piccoli lettori di Cara Garbatella un racconto scritto appositamente per loro. Il ricordo del quartiere ha ispirato molti dei suoi scritti, a partire dal primo romanzo, “Il confinato”, dedicato al padre, maestro elementare, spedito al confino per il suo antifascismo.
A breve uscirà un nuovo romanzo, che andrà ad aggiungersi alla sua già ampia produzione: “Tutto d’un fiato”, “Matrioska”, un libro di filastrocche per bambini, testi teatrali e molte raccolte di poesie. Apprezzata traduttrice di opere straniere, è molto impegnata nell’organizzazione di manifestazioni culturali. (C.B.)

Giovannino e il sogno di Natale

– Sveglia, Giovannino. È tardi.  Lei era già pronta per andare al lavoro e quel figliolo lì non voleva saperne di alzarsi dal letto. E poi, lavarsi, vestirsi, fare colazione, aiutarla a mettere un po’ di ordine nella stanza… Aveva voglia a predicare lei: Diglielo anche tu a tuo figlio di imparare a essere più ordinato, guarda che disastro…
– Giovannino, Giovannino, fai il bravo, aiuta la mamma, – mugugnava il padre senza alzare gli occhi dal piatto, con quella voce stanca e un po’ arrochita dalla bronchite cronica.
– Allora che cos’hai stamattina? Non starai mica male? Fammi sentire.
Al contatto gelido della mano Giovannino ebbe un brivido.Maria Iatosti
– Macché, macché, sei fresco come una rosa. La tua malattia è la pigrizia. Su, sbrigati. C’è il latte caldo sul tavolo. Io devo andare. Giovannino trasse un profondo respiro. Che aveva la mamma da agitarsi tanto, da muovere il freddo attorno a sé? pensò vagamente. Per lui era notte e si stava così bene al calduccio, con le ginocchia fino al mento, la testa sepolta sotto il piumone nuovo nuovo che odorava ancora di negozio. Farfugliò qualcosa, si girò sull’altro fianco e ripiombò nell’ovatta nera del sonno. Lassù, nel grande spazio c’era il suo sogno, oscillava come un aquilone al vento di primavera. Giovannino doveva solo tendere la mano, riprendere il filo, avvolgerne il capo al dito, una due volte perché non gli sfuggisse, non si perdesse fra le nuvole.
Ecco, ce l’aveva, ben saldo. Giovannino esitò un attimo ascoltando il silenzio, poi si mise a correre. La strada era lunga lunga: non si vedeva la fine, ma lui sapeva che al fondo c’erano qualcuno ad aspettarlo. Non sapeva chi. Lo chiamavano, lo incitavano, Giovannino Giovannino, ma la strada si allungava davanti ai suoi piedi leggeri e lui correva. Doveva raggiungere quelle voci, trovare la radura, il grande prato verde con il grande albero al centro fitto di foglie da dove si levava il canto stridulo e acuto di mille uccelli colorati venuti da tanto lontano. Indicandogli la cima alta e buia il suo babbo gli aveva spiegato un giorno che quella specie estranea aveva fatto un viaggio lunghissimo e estenuante affrontando fatica e pericoli d’ogni sorta per arrivare fino alla loro città e annidarsi negli alberi più alti della villa. Molti non ce l’avevano fatta: o erano tornati indietro o erano morti per via. I superstiti se ne stavano tutti ammucchiati insieme e quando vedevano che in giro c’erano più bambini e più vecchi e tante mamme coi bebè, per farsi sentire cominciavano a gracchiare e sbattere le ali contro i rami, da creare un gran concerto insieme al fruscio delle foglie. Quel canto per Giovannino aveva odore di zucchero filato, aveva il ritmo dei racconti del babbo e il calore della sua mano. Il babbo di Giovannino aveva le mani morbide e lisce, senza bisogno della crema che la mamma si metteva qualche volta dopo aver lavato i piatti. Perché il babbo, prima di essere licenziato, aveva sempre fatto un lavoro di quelli dove stai seduto e non ti vengono i calli e non ti sporchi, non come lo zio Francesco che quando staccava e veniva dritto dritto a trovarli e lo prendeva in braccio, puzzava di sudore e di unto.
Giovannino stringeva il filo del suo sogno e correva. Volava. Gli piaceva pensare di avere le ali ai piedi come certe figure che erano sul libro di storie mitologiche che il babbo gli leggeva prima di dormire. Spingeva lo sguardo, ma i suoi occhi non vedevano la fine della corsa. Gli altri, giù nella valle, continuavano a intonare il suo nome: Giovannino! Giovannino! come una canzone. L’eco di quei richiami gli turbinava nelle orecchie insieme al sibilo leggero del vento. Corri, corri, Giovannino, corri, cantava l’eco. E lui correva senza peso, senza affanno. Non importava quando, ma sarebbe arrivato, lo sapeva. Non c’era Fretta. Nel sogno non c’è il Tempo: Tardi. Presto. Domani. Sabato. Lunedì. Presente. Passato. Futuro. Sempre. Mai… Parole, suoni
forse esistenti in qualche luogo, qualche dimensione, e forse no.
Giovannino non poteva spiegarsi di dove venisse quella sottile sensazione, come di qualcosa o qualcuno che gli vellicasse i ricordi in cerca di un’immagine, un concetto distinto come una figura geometrica: un triangolo, un cerchio, un trapezio. Trapezio… Una figura luccicante di lustrini che si lancia nello spazio con le mani tese a incontrare nel vuoto altre mani, una piroetta, un salto, il cuore in gola, il respiro trattenuto, poi il boato della folla, il rombo dei piedi battuti sul legno della gradinata.
Giovannino che vola con le ali alle caviglie, ed ecco, nella testa affiorare un ricordo: le dita appiccicose di gelato, il duro della panca sotto il sedere, la calca che stringe, che urla, che ride, le capriole dei clown, le luci, la musica, l’odore di segatura e di letame… e poi subito un altro: l’albero illuminato coi regali attorno da scartare, la letterina sotto il tovagliolo.
La lunga notte dell’attesa… Giovannino! Giovannino! E a un tratto eccolo il grande prato. Grande e smagliante di colori. Fiori, pensa Giovannino con gli occhi immensi di stupore. Di questa stagione.
Con la pioggia e la neve e la tramontana e il terremoto… Non fiori, Giovannino, guarda, guarda. Bambini sono, bambini come te. È un vecchio che ha parlato. Accovacciato sotto il grande albero dei pappagalli venuti da lontano tiene sulle ginocchia uno strumento e lo fa andare girando una manovella. Il suono è stridulo, gracchiante, si confonde con quello degli uccelli nascosti nel fogliame. I bambini circondano Giovannino, festosi e colorati come una ghirlanda: neri gialli rossi azzurri verdi. Lo prendono per mano e girano girano attorno all’albero, attorno al vecchio che suona con la testa china sullo strumento, senza volto.
Giovannino ha perduto l’aquilone: s’è impigliato lassù tra i rami e poi, con uno strappo, è volato più in alto. Sembra una nuvola che si sfiocca e si  allunga all’orizzonte. Giovannino è felice. Gira gira girotondo…
– Giovannino! Giovannino! Ancora a letto! Alzati pigrone. Guarda che anche se sei in vacanza, abbiamo tante cose da fare. Il tempo vola. Natale è vicino.
– Natale?
Natale, Natale. Vieni, aiutami, dobbiamo addobbare l’albero.
– L’albero?
– Dai Giovannino, dove hai la mente? Svegliati! Lo sai che in piazza è arrivato il Circo? Dicono che quest’anno sarà un po’ più piccolo, un po’ più povero. Mah!… Su, vestiti, andiamo a vedere.
– Il circo…
– Certo, come tutti i Natali. Di che ti meravigli? Muoviti, Giovannino… Sbrigati.
– Volo, mamma.
– Eh, Giovannino, Giovannino. Sempre con la testa fra le nuvole.Chissà a cosa pensavi.
– Sognavo, mamma, sognavo.
Natale 2010.

 

Copyright tutti i diritti riservati – Cara Garbatella Anno 7 – Dicembre 2010

 

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