Un racconto natalizio della scrittrice Maria Jatosti

Un racconto natalizio della scrittrice Maria Jatosti

maria-jatostiLa scrittrice Maria Jatosti, concittadina della Garbatella per tutti gli anni della sua giovinezza, ancora una volta ha voluto regalare ai nostri piccoli lettori un racconto di Natale, ispirato dai ricordi del tempo passato trascorso tra di noi. Recentemente è stato rieditato con grande successo il suo primo romanzo, “Il confinato”, dedicato alla storia drammatica di suo padre, maestro elementare, spedito con la sua famiglia a un duro confino per il suo irriducibile antifascismo. Seguirono molti altri romanzi, raccolte di poesie, testi teatrali, sceneggiature e anche un libro di filastrocche per i bambini. Apprezzata traduttrice di opere straniere, è da sempre molto impegnata nell’organizzazione di manifestazioni culturali. (C.B.)

L’albero di Giovannino

di Maria Jatosti

L’estate era finita da poco e già incombeva l’autunno.
Un’estate lunga tra la città e qualche scappata in campagna, al paese dei nonni, nella casa con il tetto di tegole, il gelso ombroso, gli ulivi e il grande fico carico di frutti dolcissimi.
l-albero-di-giovannino-di-maria-jatostiA Giovannino piaceva andare dai nonni. Nonno Nicola conosceva il nome di tutti gli alberi e di tutte le piante e di tutti gli uccelli e sapeva tante storie che raccontava aggiungendo ogni volta nuovi particolari, di ricordi veri o inventati. Per il 90° compleanno, alla fine di agosto, erano venuti gli zii, i cugini, e degli amici con il violino e la fisarmonica e la mamma di Giovannino, che aveva una bella voce intonata, aveva cantato vecchie canzoni. La nonna che era stata ai fornelli tutta la mattina mise in tavola il pollo con i peperoni e un fiasco di vino buono delle colline.
Per i nipoti più giovani c’erano in frigo la cocacola e il gelato. Che bella festa era stata! Dopo pranzo i grandi avevano giocato a carte, parlato di politica, raccontato storielle mentre la nonna e la mamma rigovernavano coi gatti tutti attorno alle caviglie ad aspettare gli avanzi. Giovannino e i cugini erano saliti in cima al colle da dove si vedeva la città distesa in lontananza, oltre la grande vallata immersa in una luce azzurra.
Con la buona stagione il lavoro non era mancato. “Il peggio è passato, diceva il babbo, il cantiere ha riaperto e per un po’ stiamo tranquilli.
Quando arriverà l’inverno, vedremo. In qualche modo si farà”. “L’importante è la salute”, commentava contenta la mamma. Diceva sempre così: l’importante è la salute. Forse perché lei di salute non ne aveva troppa. Con tutto quel correre di qua e di là, badare a chi stava peggio di lei, sgobbare a ore in case d’altri, lavare scale, stirare camicie, rattoppare, e poi pensare a lui, Giovannino, e al babbo, fare in modo che tutto filasse liscio in casa e ci fosse sempre un pasto caldo in tavola, che alla sera non ce la faceva a tenere gli occhi aperti e si addormentava con l’ago e il filo in mano sui calzini bucati.
“molla lì e vattene a letto, diceva papà marcello. Sei stanca morta”.
“Noo, ho chiuso gli occhi solo un momento”. “Almeno mettiti gli occhiali. Dove ce li hai gli occhiali?
E tu Giovannino, va’ a dormire, che la mattina ci vuole il cannone. E non fare giorno a leggere, come al solito. Spegni la luce, che costa. Su, da bravo”.
“Domenica si va dai nonni, papà?”.
“Vediamo. Se non piove”.
Erano iniziate le piogge. “Ci risiamo, diceva il babbo. Appena comincia a piovere questo paese si sbriciola, affonda, va in malora”. Leggeva il giornale, guardava la tivù e si faceva sangue cattivo. “Hai sentito in Sardegna che disastro. Povera gente… Per non parlare di quegli altri, quei disperati che vengono da lontano e il mare se li inghiotte…
Donne, bambini…”.
“C’è troppa ingiustizia nel mondo.
A chi troppo e a chi niente, commentava la mamma sfaccendando. L’ha detto anche il papa…”.
“Già. Che bravo questo papa Francesco! un vero cristiano. E’ la legge che non funziona. Non funziona niente. E adesso questa storia dell’albero…”.
In quei giorni si faceva un gran parlare nel condominio. Il babbo era tornato dalla riunione straordinaria tutto agitato e accalorato. La mamma fece fatica a calmarlo e a fargli raccontare che cosa era successo.
“E’ successo… è successo che sono diventati matti. Bisogna fermarli…
ma te lo immagini! Vogliono buttare giù l’albero e anche le panchine vogliono togliere, spianare tutto, via la ghiaia, una bella colata di asfalto…
Io ci ho provato a farli ragionare e qualcuno era con me, ma la maggioranza…
Insomma si è votato e…”.
Le finestre si aprono come occhi vigili sul cortile del condominio, delimitato ai lati dalle quattro palazzine color ocra disposte a semicerchio e sul fronte della strada, una viuzza angusta e popolosa del vecchio quartiere a sud della metropoli, tra un muretto
e una cancellata di ferro. Al centro si erge un gigantesco cedro del Libano. La sua cima ondeggia
al vento quasi a sfiorare gli ultimi piani, mentre le braccia frondose, un po’ affaticate dagli anni, pendono malinconicamente all’ingiù, quasi a lambire le tre panchine di legno dove l’estate si attardano in cerca d’ombra anziani inquilini, a leggere il giornale e aspettare il fresco. Tra i suoi rami strillano frotte di parrocchetti sfuggiti alla colonia che si annida nel vicino parco. A Giovannino piace quel chiasso, gli mette allegria. Si sforza di guardare nel fitto dei rami ma non riesce a individuare la fonte di quella gazzarra. Una volta, da piccolo, ci ha perso un palloncino, lassù, e ha immaginato che uno di quei misteriosi abitanti lo avesse trattenuto con il becco.
“Calmati e spiegati, lo incalzò la mamma. Racconta…”.
“C’è poco da spiegare. Vogliono spianare tutto per fare posto alle macchine, capisci?
Un parcheggio, è questo
che si sono messi in testa di fare.
Via l’albero, via le panchine, le piante, la ghiaia: solo asfalto e macchine.
E’ uno schifo!”.
Dobbiamo fare qualcosa, pensava Giovannino con una gran pena nel cuore.
Da giorni cadeva una pioggia sottile fitta fitta e gelida che penetrava nelle ossa. Nel condominio i caloriferi non erano ancora accesi e in casa si battevano i denti e i piedi e la sera ci si infilava subito sotto le coperte.
“Pensa a quei poveretti che non hanno nemmeno una casa, diceva la mamma e tossiva da schiantarsi il petto”.
“mettiti a letto. Vuoi prenderti una polmonite?”, diceva il babbo.
“ma no, ma no. Non è niente. E’ solo un po’ di freddo, ma mi copro ben bene e vado a lavorare”.
“Sei matta? Stai in casa, al caldo”. “Al caldo! Ci fa più freddo dentro che fuori. Giovannino, piuttosto, dove sei? Sbrigati. Farai tardi a scuola”.
A scuola quella mattina Giovannino e i compagni aiutarono il prof di italiano a fissare un cartone con lo scotch contro il vetro rotto del finestrone . “Questa è fatta, disse il prof. Ora parliamo di Dante. Aprite il libro a pagina cinquantotto”. Prima di andarsene, il prof, che era
giovane e simpatico, disse: “Perché non facciamo qualcosa per questo Natale, qui nel nostro quartiere?
Fatevi venire un’idea…Pensate qualcosa…”. Giovannino pensava pensava e gli venne in mente l’albero che volevano tagliare. A casa non si parlava d’altro.
Gli uomini con la ruspa, mormorava la gente, erano pronti. Aspettavano solo l’ordine di esecuzione.
Bisognerebbe fare qualcosa per fermarli, aveva detto il babbo. ma Giovannino sapeva che nulla avrebbe impedito ai nemici di portare via l’albero, il vecchio albero con la sua ombra, il suo concerto di abitanti invisibili, il suo palloncino scomparso tra i rami, Pensava e aveva il cuore stretto. La notte sognò un’invasione di macchine da guerra. Arrivavano rombando, travolgevano giù il muretto, il cancello, entravano in cortile e abbattevano tutto ciò che trovavano al passaggio e al posto del grande cedro lasciavano una buca come una ferita aperta.
Bisogna fermare il nemico, decise. Quella mattina a scuola raccontò al prof e ai compagni la storia del suo albero. Il prof lo ascoltò e disse: “Uccidere un albero è un delitto.
Dobbiamo impedirlo. mobilitiamo il quartiere, facciamo una festa”.
I ragazzi approvarono con entusiasmo e si misero al lavoro. Fu coniato lo slogan: “Difendiamo la Natura. Salviamo il nostro Albero” e fu dato proprio a Giovannino, che ci sapeva fare coi pennelli, il compito di disegnare un grande striscione colorato da attaccare lungo il muretto, di qua e di là dal cancello. Da quel momento, come nelle favole tutto andò bene. Alla festa vennero personaggi importanti, e tutti parlarono di natura, dei diritti dei bambini ad avere i loro spazi, il loro verde, e tante altre cose che non la finivano più e la gente era stufa e voleva godersi la bella e inaspettata giornata di sole che sembrava benedire la festa dopo tanta pioggia.
C’erano le mamme e i papà vestiti a festa. C’erano anche i genitori di Giovannino, impettiti, orgogliosi, felici. Quella sera la mamma non sembrava stanca, non tossiva più, le splendevano gli occhi, rideva e parlava, gli faceva domande sulla scuola, lo accarezzava e, Giovannino se n’era accorto da come tirava su col naso, sfogliando il suo album da disegno, si era commossa. Anche il babbo era contento. “Bravo, Giovannino, bravo, gli aveva detto, un po’ brusco, senza guardarlo. E’ stata proprio una bella festa, io e la mamma siamo fieri di te.
Sai cosa facciamo? Visto che è tornato il sole e sono iniziate le tue vacanze, andiamo per qualche giorno dai nonni, accendiamo il camino e facciamo un bell’albero di Natale.
Vedrai, Giovannico, il peggio è passato, presto comincerà un anno nuovo e le cose miglioreranno, ne sono sicuro… miglioreranno…”. A quel punto aveva cominciato a raccontargli del suo lavoro, delle difficoltà e dell’ingiustizia del mondo…. “marcello!, venne la voce della mamma dalla cucina, mandalo a letto quel figliolo. Sarà stanco, poverino…”.
Giovannino era stanco ma non si era sentito mai tanto felice. Il gesto ruvido del babbo nell’arruffargli i capelli, la commozione della mamma, gli elogi dei professori e dei compagni, ma soprattutto la felicità sui volti della gente, la gioia dei bambini che si stringevano attorno all’albero canoro, abbracciando il grosso tronco rugoso in un festoso girotondo, il coro, la musica, i discorsi dei politici… Tutto si confuse nella sua mente, e il sonno scese sulle sue palpebre, caldo come una promessa di felicità.

Natale 2013.

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