Un racconto di Natale della scrittrice Maria Jatosti

 

Un racconto di Natale della scrittrice Maria Jatosti

Un racconto di Natale scritto appositamente per Cara Garbatella, un racconto inedito quindi che Maria Jatosti ha voluto dedicare ad Alice, la sua amata nipotina, come dono di qualcosa di se stessa, un racconto che rievoca ricordi dolci e amari dei suoi Natale dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza trascorsa alla Garbatella, il quartiere che ella lasciò nel lontano 1955 ma che le è rimasto nel cuore come fonda-mentale esperienza formativa, culturale e politica. Maria è scrittrice e poeta. Il suo primo romanzo, “Il confinato”, lo dedicò al padre, maestro elementare, spedito al confino per il suo antifascismo. Seguirono altri romanzi,
“Tutto d’un fiato”, “Matrioska”, un libro di filastrocche per i bambini, testi teatrali e molte raccolte di poesie.Organizzatrice di manifestazioni culturali, è anche apprezzatissima traduttrice di opere straniere. C.B.

Uccidere i ricordi  ….. di Maria Jatosti

 

 

Un racconto di Natale della scrittrice Maria Jatosti

 

Un racconto di Natale scritto appositamente per Cara Garbatella, un racconto inedito quindi che Maria Jatosti ha voluto dedicare ad Alice, la sua amata nipotina, come dono di qualcosa di se stessa, un racconto che rievoca ricordi dolci e amari dei suoi Natale dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza trascorsa alla Garbatella, il quartiere che ella lasciò nel lontano 1955 ma che le è rimasto nel cuore come fonda-mentale esperienza formativa, culturale e politica. Maria è scrittrice e poeta. Il suo primo romanzo, “Il confinato”, lo dedicò al padre, maestro elementare, spedito al confino per il suo antifascismo. Seguirono altri romanzi,
“Tutto d’un fiato”, “Matrioska”, un libro di filastrocche per i bambini, testi teatrali e molte raccolte di poesie.Organizzatrice di manifestazioni culturali, è anche apprezzatissima traduttrice di opere straniere. C.B.

Uccidere i ricordi

di Maria Jatosti

ad Alice

Si chiedeva come fosse spuntato all’improvviso quell’enorme albero a punta in mezzo all’ingresso. Una grande ombra che invadeva la stanza rendendo il buio più buio. La bambina incerta sulla soglia provò un piccolo brivido. Alle spalle c’era il sole pulito e freddo dell’inverno. La mano intirizzita reggeva la cartella, il cappottino risicato tirava sul petto, il fiocco azzurro pendeva floscio sui baveri. Sciarpetta e guantini di lana sferruzzati dalla nonna dimenticati sotto il banco. Dove avrai la testa?
Hai perduto di nuovo il nastro dei capelli! È il terzo che ti cambio.
Guardati come sei sciatta. Distoglieva gli occhi dal lavoro la madre seduta davanti alla finestra sulla seggiola sempre più stretta. La bambina si chiedeva con stupore come mai la paglia non si sfondasse sotto il peso che cresceva ogni giorno. La mamma, capo chino, sospirava tirandosi il grembiule sulla pancia. Arrivò il nonno e portò la luce. Lei lasciò cadere la cartella e gli saltò in braccio.
Nonno, nonno! Le guance accese solleticate dalla barbetta morbida, la bambina annusava ad occhi chiusi l’odore forte di legno tagliato di fresco, qualche truciolo era ancora impigliato nello spolverino grigio incipriato di segatura. A bottega le lasciava scegliere i trucioli più belli, lunghi e attorcigliati come i boccoli della sorella pettinata alla Shirley Temple riccioli d’oro. Lei invece i capelli li aveva lisci e sottili: ha ripreso da suo padre diceva la madre delusa.

Vieni vieni facciamo l’albero. A cavalcioni sulle sue spalle rotonde, la bambina seguiva rapita il movimento delle mani tra i rami. Il nonno tirava fuori da una saccoccia di tela caramelle, torroncini, mandarini odorosi, ghirlande di carta stagnola e a poco a poco l’ombra nera si accendeva di colori.
Hai scritto la letterina a Bambino Gesù? chiedeva la nonna posando la sporta. Una piccola mela rossa rotolava ai suoi piedi, finiva nel buco nero tra le zampe della credenza.
Raccoglila. Lei infilava la mano nella feritoia giù giù fino al braccio rabbrividendo ai furtivi contatti sulla pelle. Immaginava enormi ragnatele di Maria Jatosti e un topino coi denti digrignati pronto a morderla… La casa dei nonni era piena di paure e segreti. C’erano stanze in cui la bambina non entrava mai che la sua immaginazione popolava di presenze misteriose. Tieni, portalo nella stanza del nonno, mettilo sulla scrivania. Lei prendeva il vaso dalle mani della nonna. Il vetro era bagnato. Le foglie le solleticavano le narici, le mani scivolavano, il vaso cadde e andò in frantumi spargendo acqua e fiori sul tappeto.
La sera del ventiquattro la casa era tutta illuminata. Arrivavano gli zii, i cugini. Il padre accendeva le candeline e disponeva sotto l’albero i pacchi col cartellino: ogni pacco un nome. Fermi fermi bambini. A mezzanotte si aprono. Loro cercavano di indovinare il contenuto dalle sagome.
Eccitati facevano previsioni e scommesse… Nella tavola già apparecchiata nel salone, le letterine aspettavano nascoste sotto i tovaglioli.
Attenti a non sbagliare di posto: qui c’è il nonno, qui papà, qui lo zio…
Il posto di zio Giovannino era vuoto e al brindisi gli occhi della nonna si riempirono di lacrime. Il pensiero della bambina andò all’eroe che combatteva in Africa, un posto lontanissimo, difficile da immaginare.
Ci sono i negri cattivi e la guerra, spiegava la nonna. Quando finirà questa guerra, nonna? Quella guerra finì, ne venne un’altra e zio Giovannino rimise i panni grigioverdi e partì per la terra dove volano le aquile.
Ci sono le montagne, le pecore e gli uomini cattivi con dei grandi baffi, disse la nonna. L’Albania lei non se la figurava, ma aspettava con ansia il ritorno dello zio vittorioso. Zio Giovannino tornò con una moglie straniera e la nonna pianse. La divisa piegata nel cassettone, pronta per la prossima partenza,
poco più di un anno dopo. Ma questa volta la bambina non lo vide. Anche lei era partita per il primo viaggio, maema non per la villeggiatura o la colonia.
Il padre li aspettava in un posto sperduto nel Sud. Dalla prigione lo avevano portato laggiù. Il treno non arrivava mai. I sedili di legno non toglievano la stanchezza. Il fratellino piangeva, faceva cacca e pipì. La madre era nervosa. Attraversarono città e montagne e campi gialli, costeggiarono lunghe spiagge e finalmente apparve il mare.
A undici anni, lei il mare non lo aveva mai visto, tranne da piccola su qualche cartolina di suo padre emigrato per lavoro a Genova. Non si staccò incantata dal finestrino fino a quando non dovettero scendere, cambiare, prendere la Littorina.

Al primo Natale di confino non ci furono regali, alberi, festeggiamenti. La casa era silenziosa. La bambina cresceva e immalinconiva. Tutto il paese era triste, avvilito dalla fame e dalla paura dei bombardamenti americani.
Sorvegliato, lontano dalla sua città, sospeso dal lavoro, suo padre era incupito, ammalato. Due anni duri da passare segnando i giorni sul calendario e il viaggio che li riportava a Roma fu più penoso. Il treno procedeva lento col suo carico di militari sbandati. I bombardieri della Luftwaffe sorvolavano il convoglio come falchi in ronda.
Un tempo e uno spazio incolmabili separavano la bambina ormai tredicenne dal prima. Prima che morisse il nonno, prima che arrestassero suo padre, prima della scoperta del male, prima della perdita dell’innocenza… La scoperta del quartiere diverso da quello dell’infanzia, l’ingresso nella casa vuota nella terza delle sei palazzine, in fondo, sulla destra, primo piano, finestre sul cortile da una parte e dall’altra sulla strada la sgomentarono.
Una cintura di palazzi moderni di cinque sei piani protesi verso est separava nettamente il compatto nucleo centrale di villini fioriti, dove batteva il cuore operaio e “rosso” del quartiere, dall’agglomerato architettonico piccolo borghese impiegatizio dei nuovi lotti statali insediati dal regime. Lei lo avrebbe scoperto più tardi. Quando la pace spinse tutti per le strade verso il sogno di un mondo migliore.
Primo Natale del dopoguerra: il capitone nella vasca in attesa disperata dell’esecuzione, i fritti dorati della madre, il panettone e il liquorino finale. E l’albero. Nella sala più grande della casa, ancora disadorna. Nel pomeriggio lo scambio degli auguri. C’erano tutti, compresa la signora Petrillo col suo levriero azzurro, la scrittrice dell’ultimo piano col fratello partigiano di Giustizia e Libertà, i coniugi Patanè, i marocchini abusivi, in realtà siciliani, tutti rigorosamente vestiti di nero… Quando i “vecchi” lasciarono il campo arrivarono i ragazzi: Enzo Petrillo, Stellina Aliquò, Massimo Pradella col violino, Luca Lucchetti dalla palazzina di fronte, Marcella Griffo Gallo, tutti gli amici dei fratelli… Lilli e Enzo condividevano il talento e il fuoco dell’arte, Stellina sognava il teatro, Massimo suonava la berceuse di Godard o il minuetto di Mozart, Luca già guardava al cinema, Marcella studiava l’inglese per sposare un baronetto, Aurora fabbricava bamboline e lei sognava: la poesia, l’amore e la vittoria politica: la nascita a primavera di una repubblica democratica.
Alla foto davanti all’albero si unì anche la madre. Enzo allarga le lunghe braccia, lei sorride dimenticando per un momento una pena segreta, Massimo sporge la sua bella testa, Lilli accovacciato sfodera una smorfia istrionica, Luca il futuro cineasta scatta per i posteri.
Ce l’ha ancora quella fotografia, lei. Natale 1945. Casa. Piazza Oderico da Pordenone 1. Giorni fa mettendo ordine, le è capitata fra le mani e, sopraffatta dall’emozione non ha trattenuto le lacrime.
Fragilità senile. Si è affrettata a rimetterla nel mucchio con le altre di quegli anni e dopo. Ma la malinconia è rimasta. Non bisognerebbe fare queste cose. Bisognerebbe assassinare i ricordi, uccidere la nostalgia.

Dicembre 2008

Copyright tutti i diritti riservati – Cara Garbatella Anno 5 -Dicembre 2008

 

 

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