“C’è
chi fa Sanremo e chi fa X Factor, noi facciamo la Garbatella”.
Con
queste parole Alessandro Pieravanti, batterista e voce narrante del gruppo del
Muro del Canto, ha aperto in piazza Sauli il concerto per la festa dei 99 anni
del quartiere.
E’ domenica 24 sul calendario, febbraio pieno, eppure a scaldare la folla che trabocca tra il palco e la cancellata della Cesare Battisti c’è
il miglior sole d’una straordinaria invernata romana.
E
sono almeno cinquemila, ma anche di più, le persone di ogni età come di diversa
memoria folk-rockettara, venute dai sette angoli della città a cantare, assieme
a Daniele Coccia e gli altri, i versi dei loro lavori più conosciuti o a
saltare sul posto seguendo le note nuove de “L’Amore Mio Non More”. Questo
infatti il titolo dell’ultimo disco firmato dal gruppo romano che pare calzare
a pennello come dedica, la più appropriata e tenera, al compleanno d’una borgata
giardino battezzata Concordia nel 1920 ma cresciuta ribelle e forte col nome di
Garbatella.
Prima
delle canzoni sono state comunque le parole del presidente Amedeo Ciaccheri a
ricordare la qualità sociale del “secolo breve” di queste parti, rivendicando
la cultura dell’accoglienza, le virtù dell’antifascismo e del rifiuto del
razzismo, cresciute nei lotti e coltivate di generazione in generazione.
Col saluto a Riace è poi partito il tour sonoro che in oltre due ore e mezza ha offerto il meglio della produzione artistica firmata Muro del Canto. Ouverture d’obbligo per Reggime er Gioco, prima traccia del nuovo disco, racconto d’una Roma zingara e smarrita dove però c’è sempre spazio per un’altra chance, per un’altra occasione di riscossa: “Reggime er gioco ancora / Come è stato tanti anni
fa —invoca la voce del gruppo- Che a noi nun ce mettono in riga…”
Pasolini e Lando Fiorini, Gadda e Gabriella Ferri, Giuseppe Gioacchino Belli e Ennio Morricone, forse Remo Remotti o Victor Cavallo: non sono certo i riferimenti letterari alti, come pure i rimandi alla musica più di consumo, a fare difetto in pezzi come Novecento o
come il recitato Roma Maledetta, come Cella 33 o L’Anima de li Mejo,
irriverente e beffarda dichiarazione d’amore e sfida alla “commare secca”
ovvero alla vita che della morte è complice e rivale.
La periferia e la fame che te fa “pija’ d’aceto”, l’infanzia e il carcere, il tradimento, gli amori, la morte ancora e soprattutto il tempo che scorre, sono i temi che, una canzone dietro l’altra, giocano con le sonorità più diverse, alternando nei respiri della fisarmonica o
nei passaggi al piano come nel ritmo delle percussioni, l’aria d’Irlanda al
western, il rock ruvido al vigore gitano. E di ogni cosa il dialetto romanesco,
sempre curato e mai banale, lingua meticcia e ormai universale, è sintesi d’espressione
e garanzia di qualità.
Garbatella, la sua gente e la fresca giovinezza dei suoi anni, non poteva trovare cantori più appropriati. E il coro generale che nel finale accompagna le note de La Vita è Una -ultimo pezzo reclamato nei bis finali- vale appunto come una dichiarazione d’affetto per
i suoi figli ovvero di risposta, ferma e serena, urlata in faccia ai profeti
delle passioni tristi o a chi nel rancore trascina i suoi giorni.
“Tu
ridi sogni e questa vita te la bevi / tutta de un sorso senza manco ripijà
fiato…
Quasi
nun senti come passeno quest’anni… e te ricordi solo chi te vole bene / la vita
è una c’hai ragione e nun conviene / campa’ cor sangue amaro pe ste quattro
iene…”
E
così, ridendo d’amore, con le luci del tramonto che spengono le candeline sulla
torta, sale ancora l’ultimo grido d’uno straordinario compleanno: lunga vita a
Garbatella!