INTERVISTA AL CANTANTE ROMANO PREMIATO A SANREMO
di francesca Vitalini
Nato a Roma e cresciuto nel quartiere Garbatella, Mirko Mancini, in arte Mirkoeilcane, classe ’86, inizia da bambino a suonare la chitarra. Come musicista compone colonne sonore, sigle e spot pubblicitari, testi e musiche per altri artisti, finché nel 2015 intraprende la carriera da solista e pubblica il suo primo ed omonimo lavoro “Mirkoeilcane”, che ottiene il plauso della critica. Nel 2018 esce il suo secondo album “Secondo me” e con il singolo “Stiamo tutti bene” partecipa al Festival di Sanremo nella sezione Nuove proposte: si classifica al secondo posto e vince il premio della Critica Mia Martini.
Nello stesso anno il brano ottiene altri importanti riconoscimenti: il premio Enzo Jannacci di Nuovolmaie alla migliore interpretazione Sezione Nuove Proposte, il premio PMI (music) alla musica
indipendente e quello Sergio Bardotti per il miglior testo. Ultimo in ordine di tempo il premio Tenco, dedicato alla canzone d’autore, come migliore canzone. Stai vivendo un 2018 importantissimo, come pensi di concluderlo?
Spero con una vacanza!
Ovviamente sto scherzando.
Sono impegnato con il tour, iniziato a maggio, la cui ultima tappa sarà a Roma il 20 dicembre all’Auditorium Parco della Musica. Con il 2019 inizierà, poi, la preparazione di un nuovo album…
c’è da fare ancora! Qual è, secondo te, il successo del singolo “Stiamo tutti bene”, che racconta uno dei tanti viaggi della disperazione nel Mediterraneo, questa volta visto dagli occhi di un
bambino?
Credo sia lo stesso tema trattato, sempre in primo piano nelle agende politiche e dei media, un argomento che divide l’Italia, così come ha diviso la critica.
L’ho affrontato usando come punto di vista la storia di un bambino perché è fondamentale affidarsi all’esperienza diretta più che al sentito dire, che abitualmente genera incomprensione, paura, che a loro volta sono l’anticamera del razzismo.
Ma ecco, un artista può sollevare il tema, è poi responsabilità dei media dare la giusta informazione sulla migrazione e non generare false paure.
I tuoi testi sono impegnati e nello stesso tempo carichi di quell’ironia sarcastica del tutto romana. Cos’altro ti hanno insegnato Roma e la Garbatella?
Il sarcasmo è un modo di fare tipico dei romani, tra di noi ci capiamo, per altri è un atteggiamento inusuale, originale.
Garbatella, poi, mi ha insegnato la semplicità, la convivialità, l’immediatezza dei rapporti umani. Faccio parte dell’ultima generazione del citofono: ci si citofonava per giocare insieme
nel cortile, dove in sedici/diciassette stavamo per ore, finché non faceva buio. Questo tipo di vita, per un bambino, non è possibile in altri quartieri romani.
Ma è un tipo di vita che ti porti da grande, che ti forma nel relazionarti agli altri.
Attraverso tale sguardo sarcastico, come descriveresti la Garbatella. Ci diresti un suo aspetto negativo ed uno positivo?
A Garbatella c’è condivisione; si svolge un tipo di vita non individualistica e si rimane in contatto con la realtà. Di aspetti negativi ne vedo di meno ed hanno a che fare sia con il passato, quando, come borgata, si potevano incontrare delle situazioni di degrado sociale, sia con il presente: essere un quartiere centrale e ricercato lo porta a degli svantaggi, come il rischio di perdere l’ identità più popolare.
Ma è l’unico quartiere in cui vivrei a Roma per la sua dimensione calma, dilatata, a differenza dell’intera città, un ritmo che è utile per il mio lavoro.
Cosa pensi del cantautorato romano che sembra rifiorire in questi ultimi anni con tante proposte musicali diverse?
Sì, c’è molta varietà. Mi piace girare per i locali romani per ascoltare qualcosa di originale, a prescindere dal genere, ma spesso questa originalità è nascosta sotto cumuli di polvere, tranne rarissimi casi: pseudo direttori artistici che scelgono unicamente “musica per riempire i locali”, gli stessi locali organizzati più per chiacchierare che per apprezzare l’artista, impianti audio/
luci di serie c…ecco, in situazioni del genere puoi scrivere anche “La donna cannone”, ma nessuno la sentirebbe.
Non sono i tempi del Folkstudio, né quelli dell’underground romano con Fabi, Silvestri, Gazzè. C’è una proposta molto ampia, ma il cantautorato non è un’etichetta, non basta scrivere canzoni, bisogna creare un’emozione, ascoltare un brano con le gambe che tremano, creare condivisione. Questo è raggiungere l’eccellenza.