Un tuffo nel passato tra mestieri e personaggi che animavano le strade del quartiere
Davanti scuola o al cinema una cartocciata di fusaje
di Enrico Recchi
Parlare del “fusajaro” significa davvero andare a sfogliare il libro dei ricordi perché, se di “callarostari” (dei quali abbiamo parlato nel precedente numero di Cara Garbatella) se ne vedono ancora in giro, il fusajaro oggigiorno è completamente scomparso dai nostri panorami cittadini.
Come dice il nome stesso, il fusajaro vendeva le fusaie chiamate in italiano lupini. Il lupino è un legume parente del fagiolo con una pianta alta circa un metro e mezzo i cui fiori dopo la fecondazione formano i legumi. A proposito ci sono i lupini da fiore, che formano delle inflorescenze colorate e bellissime.
Pianta antichissima il cui nome scientifico probabilmente deriva dal greco lype=amaro, per il sapore del seme crudo, era nota già agli antichi Egizi ben 4000 anni fa e venne descritta da Plinio che osservò come le sue foglie seguano il corso del sole proprio come fa il fiore del girasole.
Da sempre le fusaie sono state considerate un alimento non particolarmente pregiato, una volta, appunto, venduto agli angoli delle strade dai venditori ambulanti o al cinema assieme ai mostaccioli. Invece i nutrizionisti ci dicono che questo legume ha un contenuto in proteine che rivaleggia con quello della carne ed è superiore a quello delle uova.
Certo se oggi andassimo a chiedere ad un bambino che cos’è una fusaia (oppure un lupino) dubito che potremmo trovare qualcuno che possa dare una risposta corretta. Di sicuro quel bambino ci potrebbe parlare correntemente di merendine.
Fino a una trentina di anni fa invece comperare un “cartoccio di fusaje” era un modo comune per i ragazzini della Garbatella (e non solo) di investire pochi spiccioli in uno stuzzichino in attesa del pasto o per spezzare i giochi in strada.
Quanti di noi ricordano colloqui di questo tenore con la mamma: “A ma’, io scenno qua sotto in Chiesoletta” “Guarda che tra poco se magna…” ” Vabbè, ‘na mezzoretta” “Sì ma nun te rovinà la cena dar fusajaro!”
Già perché il venditore ambulante di fusaje, precursore dei tempi, rispetto al callarostaro aveva una offerta assai più ampia che comprendeva non solo le fusaje ma anche olive, sia quelle verdi grandi che le olive nere al forno, oppure bruscolini e, andando ancora più indietro nel tempo, le carrube.
Certo tutto dipendeva dalla disponibilità in “saccoccia” ovvero da quanti soldi si possedevano. Una volta accertato che c’erano sì e no 10 lire, si decideva di spegnere i languorini dello stomaco con un cartoccio di fusaje con una bella spruzzata di sale in cima, tanto poi si poteva fare una bella bevuta alla fontanella. Infatti quando il cartoccio, rigorosamente di carta paglia gialla, era pronto con le fusaje dentro, arrivava l’immancabile domanda: “Ce lo voj er sale?”. “E come! Sì, che ce lo vojo”, e giù una abbondante spruzzata di sale che scendeva da un corno.
Anche se, in ogni caso, le fusaje già avevano subito il procedimento che le rendeva gradevoli al palato: ovvero erano state bollite e messe in salamoia per eliminare il sapore amaro originario.
“Er fusajaro” arrivava, a piedi o in bicicletta, trasportando tutto il suo armamentario di vendita: i sacchi con le fusaje, quelli con i bruscolini, i secchi con le olive, i mestoli, la carta per i cartocci, ecc. Come per il callarostaro, le postazioni strategiche erano davanti alla scuola Cesare Battisti, al cinema Garbatella o al Columbus. Era senz’altro un lavoro modesto, fatto in genere da un vecchietto con molta semplicità. Tanto semplice che col passare del tempo e con la perdita di attrazione delle fusaje oramai passate di moda, quella stessa parola diventò sinonimo di pressapochismo e quindi l’epiteto “fusajaro” andava a colpire il malcapitato di turno che poteva essere il compagno di giochi che aveva sbagliato o il compagno di squadra che s’era mangiato un gol o l’arbitro (un bersaglio sempre molto amato) che aveva negato il rigore.
Copyright tutti i diritti riservati – Cara Garbatella Anno 10 – Dicembre 2014