Garbatamente in cammino
di Francesco Lizzani
Conosci il paese dove fioriscono i limoni?/ […]
Laggiù vorrei con te/ amato mio, migrare
scriveva il giovane Goethe nella sua prima versione del Wilhelm Meister, concentrando in un emblema di solare poesia amorosa i paesaggi e i colori meridiani dell’Italia. Noi nel paese dei limoni ci viviamo, ma non tutti abbiamo la fortuna di vivere in un quartiere dei limoni e addirittura, nel mio caso, al cospetto dei due esemplari più maestosi che questa fiera rutacea dall’antico nome persiano (līmū, da cui il binominale tassonomico di Citrus Limon) offre all’ammirazione di chi vi abita. Un quartiere che è etimologicamente un paradiso, se questa parola ancora di origine iranica (pairidaēza: “recinto”, “giardino circondato da mura”) pare esprimere alla lettera la concezione urbanistica della Garbatella (che è appunto una “città-giardino”).
Per credere a ciò che dico recatevi voi stessi a compiere un’autopsia (nel senso in cui la intendevano gli storici greci: “ispezione con i propri occhi”) presso il numero 142 della veneranda via delle Sette Chiese, che in questo tratto – per un prodigio toponomastico degno di una sacra via – coincide con via Alessandra Macinghi Strozzi. Qui, alla destra Bar Paradisi (nomen omen in questo contesto, ma per il cognome del suo elettrico condottiero) si apre un’ansa dove in the days of old sorgeva un’area di servizio da profondo West, quando il quartiere lambiva ancora le praterie dell’Agro romano. È un tratto di marciapiede che ora si incunea nel mio “paradiso” (ahimé, condominiale) come fosse una nuova stazione di pellegrinaggio dedicata alla contemplazione dei
due alberi in parola. Sostando qui durante i rigori del verno potrete quasi scaldarvi al giallo lampeggiante che scocca tra i nembicumuli delle loro chiome impenetrabili e gravide di pomi più che
da Amalfi a Ravello.
Di qui, attraversando la strada, nonché i recenti e già bistrattati giardini veltroniani, ci si può ricongiungere alla vera via delle Sette Chiese, ora pedonalizzata fino piazza Sant’Eurosia. Siamo all’imbocco di via Antonio Rubino, dove comincia un percorso tra i più classici dell’originaria cittàgiardino: le facciate sempre diverse delle tipiche casette a due piani che fiancheggiano la strada
assumono aspetti ancora più fiabeschi tra i sipari di essenze che le incorniciano, più spesso mandarini o aranci. Per i limoni dobbiamo invece addentrarci nei cortili interni dei lotti, dove le piante sembrano difendere i loro preziosi frutti dalle immancabili tentazioni dei pellegrini…
Chi conosce il cuore del quartiere sa orientarsi come un gatto in questo silenzioso labirinto di camminamenti tra i muri degli edifici e quelli di cinta, passando da un cortile all’altro attraverso
cancelletti sempre aperti e scortato da esemplari di limoni ovunque sia diretto. La nostra meta è una coppia di alberi che rappresenta il tesoro più nascosto e prezioso offerto da questa specie ai
suoi cultori: non per grandezza, stavolta, ma per la forma che un ignoto e sapiente giardiniere ha donato al loro apparato aereo, disteso in largo quasi a formare un brindisi di coppe vegetali
rivolto al cielo. Ricordano nel loro aspetto certi pini dai rami sinuosi tipici dei giardini giapponesi, dei giganteschi bonsai dove la mano dell’uomo celebra la sua vittoria sulla Natura. Non sappiamo
a chi appartengono le mani che hanno modellato questi due esemplari, ma ciò rende ancora più suggestivo il loro fascino. Raro come l’ennesimo epigramma toponomastico che ne identifica la
dimora: via Obizzo Guidotti, quasi all’angolo con via Caffaro, all’interno del lotto 15. Sono questi i capolavori topiari, intra nostra moenia, di quell’umile e antieroica gloria botanica che il maggiore
poeta italiano del Novecento ha assunto a manifesto della propria poetica:
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Eugenio Montale, Ossi di Seppia, I limoni, 1-10





