E poi una sera tra gli spettatori scorgemmo Luchino Visconti

E poi una sera tra gli spettatori scorgemmo Luchino Visconti

di Maria Jatosti

Alla “Villetta” già dal ’46-’47, ragazzina, ero di casa quando, poco più che ventenne, entrai nel gruppo teatrale creato da Gino Girolami. Aderii all’iniziativa non per vocazione e nemmeno spinta dal fuoco sacro, ma per quello stesso spirito che mi portava a cantare nel coro di Massimo P(r)adella, che mi impegnava nella squadra di pallacanestro o nel corso di cucito, come nella diffusione porta a porta della stampa comunista, con Festa/Spettacolo finale e elezione della Miss.
Succedeva così, allora: eravamo convinti che conquistare la gente agli ideali di un mondo migliore in cui trionfassero …..

E poi una sera tra gli spettatori scorgemmo Luchino Visconti

di Maria Jatosti

Alla “Villetta” già dal ’46-’47, ragazzina, ero di casa quando, poco più che ventenne, entrai nel gruppo teatrale creato da Gino Girolami. Aderii all’iniziativa non per vocazione e nemmeno spinta dal fuoco sacro, ma per quello stesso spirito che mi portava a cantare nel coro di Massimo P(r)adella, che mi impegnava nella squadra di pallacanestro o nel corso di cucito, come nella diffusione porta a porta della stampa comunista, con Festa/Spettacolo finale e elezione della Miss.

Luchino Visconti

Succedeva così, allora: eravamo convinti che conquistare la gente agli ideali di un mondo migliore in cui trionfassero progresso, libertà, giustizia significasse non solo lottare quotidianamente contro gli attacchi alla democrazia, i rigurgiti fascisti, spesso subendo persecuzioni, affrontando la furia dei celerini di Scelba, ma anche battersi per una cultura “nuova”, di pace, di giustizia sociale. e, soprattutto, non privilegio di pochi, ma aperta a tutti, popolare. Un sogno, un’utopia che bisognava faticosamente slegare, liberare dalla dottrina. Ma quanto eravamo dottrinari, dogmatici, assoluti! L’iniziativa andava a vele spiegate in questo senso, prefiggendosi di far uscire il teatro dai luoghi sacri e aprirlo agli “amatori”. Ma per vivere aveva bisogno, oltre che, ovviamente, di appassionati, attori e tecnici, di materiali di scena, di consigli, di appoggi, di tanto denaro.Luchino Visconti
Ci rivolgemmo a varie fonti, tra cui alcuni personaggi famosi che sapevamo “vicini a noi”. Massimo Girotti, lo struggente vagabondo di Ossessione, mi ricevette personalmente nella sua casa ai Parioli. Guardandomi poco convinto con quei suoi occhi chiari, gelidi, mi diede cinquemila lire. Molto più disponibile e prodigo (ahimé, anche di moleste attenzioni), fu l’imprenditore edile compagno… Quanto agli “attori”, mi venne affidato il compito di “esaminare” i dilettanti che si candidavano. Un giorno si presentò al provino un ragazzotto pettoruto che abitava nei paraggi.

Luchino Visconti

Posto di fronte a qualche battuta da “Morte di un commesso viaggiatore”, si arenò per manifesta incapacità di lettura. Si chiamava Maurizio Arena. Intanto nel gruppo leggevamo e proponevamo testi, sviscerandoli nel contenuto e nel linguaggio. Orgoglio, spericolatezza, incoscienza non ci mancavano; si andava da Shakespeare a Eduardo, da Miller a Viviani, da Jonesco a Gorkij, e così via.. Un lavoro minuzioso e sofferto che approdò alla scelta di un dramma realistico americano, Profonde sono le radici – era la grande stagione della letteratura, del teatro e del cinema di denuncia, di Richard Wright, di Dos Passos, di Miller, di Kazan, dell’Actors’ Studio -. Gli autori, Gow e D’Ousseau mostravano uno spaccato della provincia americana del dopoguerra, col disadattamento dei reduci, lo scontro generazionale, il razzismo… Una manna per noi, neofiti entusiasti. E dilettanti. Anche se l’attor giovane, un Burt Lancaster di periferia, bellissimo, di nome Mario (Germano) Longo, già bazzicava Cinecittà e in seguito divenne un professionista di western. Va detto che il fratello Francesco (Franco), operaio/scrittore e caro amico, si affermò successivamente nel cinema come aiuto di Emmer e di Tinto Brass, prima, e poi come autore in proprio di un paio di bei film’ in particolare “Un’ emozione in più” del 1980.
Quanto a me, avevo vissuto a capofitto l’esperienza totale del Teatro di massa di Marcello Sartarelli, inoltre vantavo un paio di comparsate in un gruppo sperimentale diretto da Sergio Capogna e da mia sorella Aurora, allora allieva del Centro Sperimentale di Cinematografia, e avevo frequentato qualche seduta del laboratorio di Luciano Lucignani, il primo regista italiano a farci conoscere, con la sua Madre coraggio/Cesarina Gheraldi ai Satiri di Roma, il grande poeta-drammaturgo-comunista Bertolt Brecht. Il mio ruolo nella pièce – Ginevra, la giovane figlia ribelle del senatore guerrafondaio e razzista – mi stava addosso, non solo per ragioni ideologiche: assecondava una mia certa vena intimista, drammatica e “lessi” la parte in questa chiave, tutta rivolta all’interno. La qual cosa mi pose immediatamente in contraddizione con il regista Giancarlo Zagni, il quale puntava sulla assoluta esteriorizzazione emotiva. Il suo profondo, esasperatamente portato a livello di coscienza – piroette, gridolini, isterie, bamboleggiamenti, insomma fisicità, corpo – si scontrava con la mia quasi totale immobilità fisica che io chiamavo interiorizzazione della verità. Insomma, per me dovevano essere le parole a colpire, far riflettere, e infine emozionare. Il dissenso divenne radicale per la scena clou del dramma, in cui Ginevra rievoca un linciaggio. “Tu hai mai visto un linciaggio?”… Cominciava così il lungo monologo centrale – la “mia” scena madre – e lì si giocava tutta la credibilità del personaggio, o meglio della mia lettura del personaggio. Un giorno Zagni, che a quel tempo stava collaborando con Visconti alla preparazione di “Senso”, ebbe la “felice” idea di mostrare il suo giocattolo al Maestro, senza preavvisarci della sua visita. Luchino Visconti
Eravamo riuniti in uno scantinato a fare le prove, quando arrivarono. Visconti ci guardava dall’ombra, altero, aquilino, roccioso. Quando venne il turno del famoso monologo ero praticamente paralizzata: vuoto mentale, gola secca, mal di pancia, ginocchia molli. Lui, il Maestro, che Zagni doveva aver informato delle nostre divergenze, emerse dal buio, si avvicinò e mi disse pressappoco: “È normale. Succede anche alle grandi attrici. Si calmi. Prenda un bel fiato e dica la battuta proprio come la sente…”. L’ebbi vinta e la sera della “prima” fui gratificata dal più grande (credo l’unico) applauso a scena aperta da parte della platea composta da un pubblico popolare, certo, ma anche da addetti ai lavori – ricordo, tra gli altri, gli elogi, più tardi a cena con tutta la troupe, di Sergio Fantoni e Tonino Pierfederici. Ma a premiarmi fu soprattutto l’apprezzamento, l’incoraggiamento dell’autore di Ossessione, della Terra trema, delle Tre sorelle che avevo goduto di recente dal loggione dell’Eliseo.
Non so se fossi davvero brava, se avessi davvero talento e se avrei dovuto, secondo il suo consiglio, “continuare”, ma le sue parole, orgogliosamente custodite nella memoria, mi hanno confortato ancora quando, dopo più di trent’anni, ho ritrovato la passione e l’occasione di fare teatro, sia pure sotto altre forme, altri stimoli, altri linguaggi, che vanno dalla poesia, alla musica, alla cronaca, al manifesto politico. E il gruppo? Al primo successo seguì una fase di tentativi, di progetti, di ricerca di identità. Le difficoltà oggettive erano insormontabili. Il partito, la lotta, la vita chiamavano ad altri impegni, pubblici e privati, più radicali. Nel ’55 lasciai Roma per un lungo periodo. Ma questa è un’altra storia. Nel ’78 ci sono ritornata. Ma questa è un’altra storia ancora. Tutto è storia, anche questi vanitosi brandelli di ricordi. Oggi, a più di mezzo secolo di distanza, tra i miei sogni c’è quello di tornare alla Garbatella, a ritrovare i luoghi e le ragioni che hanno fatto di una ragazzina solitaria e introversa una donna appassionata, tenace e irriducibilmente curiosa.

 

Copyright tutti i diritti riservati – Cara Garbatella Anno 1 – Ottobre 2004

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