In occasione del 76° anniversario della Festa della Liberazione pubblichiamo un contributo dalla poetessa e scrittrice Maria Jatosti
Maria Jatosti, classe 1929, nel periodo della seconda guerra mondiale abitava con la sua famiglia nel primo lotto delle palazzine Incis a piazza Oderico da Pordenone 1, il limite estremo della Garbatella, quando ancora non c’era la via Cristoforo Colombo, ma solo campi, sterpaglie e la borgata Tor Marancia. Giovane militante della Villetta a Garbatella fin dal 1948 è autrice di “Per amore e per odio” (Manni editore 2011), “Tutto d’un fiato” (Stampa Alternativa 2012) e del “Confinato” (Stampa Alternativa 2013) nel quale ci narra la storia del padre comunista, fondatore della cellula di Avezzano, arrestato e confinato durante il ventennio fascista a Cutro, un paesino della Calabria ionica, con tutta la famiglia. (G.R.)
E’un tempo fermo. Le finestre sono chiuse, la primavera stenta ad attraversare l’opacità dello sguardo; non sventolio di bandiere né lenzuoli stesi, voci e canti di promesse. Il silenzio è scandito dal sibilo delle sirene. Un rombo continuo piove dal cielo nemico sui vivi e sui morti del Verano, sulle forme aeree del gasometro, sull’intrico ferrigno dello scalo, sugli asili innocenti sugli Alberghi degli sfrattati, sulle pietre nude delle case e si mescola alla musica dei cannoni sospinta dal maestrale tirrenico, sessanta chilometri di attesa, un’ora in linea d’aria. La speranza si serve col contagocce come la medicina per lo stomaco vacuo, ha il sapore agro della fame, della paura, delle notti scempiate, aggranchiti al gelo di un inverno infinito. Il pianto di un bambino senza latte, i racconti bisbigliati, le lamentele… lo spezzone di morte, il sangue di ragazzini strappati al gioco nella sterpaglia oltre i caseggiati, dove
spigola mia madre tra rifiuti e malepiante un simulacro di verde da mettere in pentola sul fuoco stento di legna.
Hanno ridotto la razione del pane. Oggi le motociclette hanno ringhiato rabbiosamente attorno al primo lotto. Usci e finestre sbarrati. Urli. Calpestio di stivali. Fiato sospeso. Cercano gli ebrei della prima scala. – La bella testa dell’artista giovinetto china sullo strumento di Paganini, il volo dell’archetto, le dita leggere sulle corde, il pippiare della polenta di sorgo nel paiolo, il brontolio delle viscere vacanti, il complottare di mio padre di là nello studio, le insonnie turbate su un libro a lume di candela.
L’inverno non finisce mai. Il rombo incombe dal cielo e dal mare. Usci e finestre sprangati. Il cortile tace. Nessuno canta. E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore. Il soprano della palazzina “C”ha smesso di gorgheggiare Un
bel dì vedremo un fil di fumo. E’ un tempo di albe ventose e il vento, il vento porta musiche bizzarre, umori e rumori d’angoscia, bagliori sinistri, boati, grida, lamenti, scrosciare di fucili, e il pianto delle madri e dei figli. La guerra è per le strade, da via Rasella dei ricchi alle periferie popolari, dal Quarticciolo di Bandiera rossa al Tiburtino, al Quadraro della mia infanzia. Lì sono nata, lì mio padre mi portava all’asilo sulla canna della sua bicicletta. C’erano tanti prati e tanto vento sulla fronte. Al Testaccio di nonno socialista andavo a scuola più tardi. Era tempo di conciliazioni, di leggi razziali e di sbirri in borghese al portone di casa, via Galvani, di fronte allo stadio di Masetti Guido. Alla Garbatella, invece, ci sono arrivata dodicenne, dopo lo sfollamento in Abruzzo, il carcere e il confino fascisti in un paese remoto e selvatico della Calabria dove, sorvegliato a vista, mio padre seminò germi di comunismo e di libertà e dove ora lussureggia la gramigna. E a questa Garbatella ci sono nata tre volte: alla giovinezza, alla passione politica, alla vita di donna.
Oggi consumo un’incerta vecchiaia all’Appio Tuscolano, non lontano dal Quadraro dei deportati del 17 aprile… Chiusa in casa ad aspettare che passi l’odioso flagello, sospesa in questi giorni lunari, la memoria prende sostanza di sogni e mescola e impasta
ricordi e vissuti, orgogli e passioni, vittorie e ferite, e il buio s’attraversa e si popola di lampi e figure. Immagini scolpite, nomi, date, giorni, eventi s’affollano … E mi sfilano davanti agli occhi i volti di tanti di coloro che, da uomini liberi, si adunarono per dignità e non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo. Uomini e donne e giovinetti come Ugo il ragazzo del ponte Salario, come Vasco Pratolini che tiene nascosti nelle stanze Piero Calamandrei e le armi nella culla della figlioletta Dada, come Alfonso Gatto che scampa alla cattura saltando da un tetto all’altro di via Frattina, e Carlo Salinari, Mario Socrate, Carlo
Lizzani, Carla Capponi, e mamma Caterina del Tiburtino e Teresa incinta che corre come Anna Magnani, e le donne del forno e le ragazze dei chiodi a tre punte e della stampa clandestina nella sporta, e Giuseppe, il papà di Clara, compagna di scuola,
trucidato alle Ardeatine, pochi passi da casa mia, sulle Sette chiese da dove, lanciando lo sguardo lungo dal terrazzo, una calda domenica di primo giugno, li vidi arrivare, lentissimamente, loro, i salvatori portatori di libertà scatolette boogie-woogie e gazzarre notturne.
Non so come dal seguito tre giovani ragazze vestite di una goffa tuta grigioverde col fazzoletto fiammeggiante al collo il fucile imbracciato e la fronte intrepida si staccarono e entrarono nel cortile di piazza Oderico da Pordenone primo lotto Incis, lo percorsero fino in fondo, si fermarono ai piedi della scaletta della mia palazzina dove avvenne l’incontro con mio padre e noi che corremmo ad abbracciarle con le lacrime agli occhi. L’inquilina fascista al piano di sopra biascicò un insulto toscano, i “marocchini” dell’ultimo piano schioccarono le imposte. La mia amica Marcella — nipote di un partigiano di Giustizia e Libertà e figlia di una scrittrice di romanzi antifascisti — mise un tricolore alla finestra e scese a scapicollo.
Io ho un solo rimpianto: non essere stata tra quei partigiani che sfilarono per le strade di Milano liberata e ho sempre invidiato Lù Leone, la ragazza bella col fucile e l’impermeabile e l’aria fiera della famosa fotografia che Fabrizio Onofri mi mostrò, dieci
anni dopo i fatti, a Milano.
Roma, 13 aprile 2021 Maria Jatosti
Nota: I corsivi si riferiscono a noti versi di altrettanto noti poeti italiani