Tra sabbie nere e case popolari si muove l’ultimo romanzo di Massimiliano Smeriglio

di Anna Di Cesare

“Mio padre non mi ha insegnato niente” è un testo lapidario già dal titolo, scelto dall’autore e dall’editore per provocazione. Ma non è un romanzo rancoroso, Massimiliano Smeriglio mette da parte l’odio fin dalle prime battute. “Avrei voluto fargli male” scrive dei suoi genitori, “ma alla fine sono guarito.” Il libro è scritto con un inchiostro che sa di lacrime e sangue, ma l’intento non è recriminatorio: per questo motivo l’autore si è sentito libero di scrivere solo dopo la scomparsa dei genitori. Lo stile affilato rispecchia il vissuto scomodo del protagonista. A colpire è una serie di frasi incipitarie: “facevo anche cose strane”; “era estate, avevo quattordici anni e mi sono perso”; “mio padre era bigamo”, da cui si snoda la narrazione dei vari capitoli. Una narrazione che non va in un’unica direzione ma spesso torna indietro nel tempo, seguendo il flusso anche disordinato della memoria.
Il nuovo romanzo di Massimiliano Smeriglio tenta di ripercorrere le fasi di una formazione personale che però di personale ha davvero poco. Si tratta di una formazione soprattutto “collettiva”, affidata a contesti comunitari, mai alla famiglia o all’individuo. Cortile, piazza, strade e parrocchia sono i luoghi in cui il bambino muove i primi passi. Anche grazie alla forma di aggregazione più semplice e “anarchica” che esista: il pallone contro i muri dei lotti. “In strada si coopera per necessità” scrive l’autore, “non per scelta.” La necessità è dettata a un contesto familiare freddo e privo di stimoli. Il padre assente. La madre “professoressa associata di rimozione”, una donna che riesce a cancellare tutto, figli fatica umiliazioni, tranne la malattia in cui paradossalmente si muove bene, come nella prigione in cui è stata relegata per tutta la vita. Una donna stretta — come molti altri personaggi — in un’esistenza che non vuole e che non rifiuta, non per mancanza di intraprendenza ma per incapacità di immaginare un modo diverso di stare al mondo. Fa pensare a quell’elefante che non si libera dalle catene perché è stato abituato, fin da piccolo, a restare legato. E anche adesso che è grande e grosso e potrebbe ribellarsi senza difficoltà, non si azzarda a muoversi.
Smeriglio ha detto più volte che nel suo libro non c’è niente di metaforico. Di metafore a dire il vero qualcuna ce n’è, talmente potente che è difficile dimenticarla. Come quella del ranocchio caduto nella panna che, a forza di sgambettare, la trasforma in burro e riesce e venirne fuori. Così vivono le persone della borgata, in un mondo dai confini definiti. Il desiderio e l’ambizione sono categorie non contemplate, come i matrimoni d’amore. Fin dal momento del concepimento, il protagonista è un intruso, un indesiderato. Dopo diversi tentativi di aborto autoindotto, il feto genera scandalo, turba l’ordine familiare e dà vita a un nuovo ordine: si appronta in fretta e furia un matrimonio riparatore, un matrimonio non voluto a cui la madre risponderà a colpi di sigarette e il padre intrattenendo, parallelamente, una seconda relazione. Un padre che non è in grado di amare la moglie né di insegnare qualcosa ai figli. A insegnare sono la strada, l’oratorio, il cortile, la maestra Ester o la scuola. La scuola, non a caso, occupa l’ultimo posto nella scala dei valori: per il bambino non desiderato anche lo studio è solo un ripiego, non una fonte di soddisfazione personale.
Sono ricordi in bianco e nero, quelli di Massimiliano Smeriglio. Fotografie scure e fredde come le sabbie nere dell’Idroscalo di Ostia. In questo contesto però germoglia un seme di speranza, di presa di coscienza: lo studio e l’attivismo politico, prima all’istituto tecnico Severi di Tor Marancia, poi alla Sapienza e nei centri sociali; ma anche questo è un processo lungo e non privo di cadute e ripensamenti. “A me la telefonata che cambia la vita non è mai arrivata” scrive l’autore al termine del libro. Nessun deus ex machina stile Dickens pronto a tendere una mano al protagonista e sottrarlo dopo mille peripezie alla realtà ingrata in cui è vissuto. Questo succede nei romanzi, il libro di Smeriglio invece attinge dalla vita vera di un bambino costretto fin da subito a tirare avanti come un adulto, a cavarsela anche di fronte all’episodio agghiacciante della morte di un uomo, a porsi domande sulla responsabilità individuale senza poter parlarne con nessuno. Il primo grande slancio viene solo con l’impegno politico, che si nutre del dolore, degli sbagli e delle umiliazioni passate ma senza livore, anzi con un certo senso della misura. “Non c’è futuro nella resilienza” scrive Smeriglio al termine del romanzo, “ma solo la dimensione edonistica del presente. L’ideologia di rialzarsi in fretta dalle cadute, ignorando la potenza educativa degli inciampi.” Ripercorrere il proprio passato non serve a ritrovare lo slancio aggressivo di chi è stato offeso, ma la fermezza di chi ha fatto esperienza. Un atteggiamento che emerge già nella prima pagina, accanto alla dedica: “Per quello che è mancato, per quello che hanno donato.”

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