La morte di Antonio Angelucci, un veterano della Villetta e della Garbatella Uccio, scrittore di muri

La morte di Antonio Angelucci, un veterano della Villetta e della Garbatella

Uccio, scrittore di muri

Uccio, Antonio Angelucci, 81 anni, un figlio della Garbatella nel pieno senso della parola, un veterano di quella Villetta di Via Passino nella uccioquale, dal 1944 in poi, si sono formati centinaia e centinaia di uomini liberi, di propugnatori di una società più giusta, ci ha lasciati il 17 maggio scorso dopo che una malattia crudele per lungo tempo l’aveva costretto in casa. Quattro giorni dopo è stato solennemente ricordato proprio in quella Villetta che era la sua seconda casa.
Uccio prima della pensione per lunghi anni aveva lavorato alla spedizione dell’Unità, un’attività che lo aveva fatto sentire un privilegiato e della quale andava fiero. Alla commemorazione l’intervento più sentito, più rappresentativo della personalità di Uccio – tra le tante testimonianze che sono state portate – è stato quello del giornalista Claudio D’Aguanno, che riportiamo integralmente a seguire. Cara Garbatella si associa alle belle parole di D’Aguanno ed esprime nel contempo la più affettuosa solidarietà alla figlia di Uccio, l’ assessora municipale Paola, ai cari nipoti Matteo e Tommaso e a Giuliana, la compagna che gli è stata vicino fino all’ultimo respiro.

<<“Il bar di via Passino era una specie di scamuffa, sala d’aspetto d’una stazione scalcinata di periferia. Nella geografia del quartiere era noto come “ai zozzoni” e con il “lunik” della “nanetta” e il “bar delle catene” se la batteva alla grande per il primato in quella che Giorgio e Uccio avevano battezzato la top ten della esclusiva guida Michelin della Garbatella. Ai suoi tavoli si fermava volentieri la gente del cinema, quella di passaggio, chi abitava i cortili dei lotti. “Er Maccarello”, il padre del pugile ammazzato una sera d’ottobre a Tor Marancia in una “chicago” di revolverate, ce lo trovavi sempre con il suo repertorio da ambulante in pronta vendita: accendini scarichi e orologi scrausi in cassetta nonché ombrelli al braccio ma solo quando il cielo imbruttiva incazzoso. Un altro cassettaro era il sor Paolo, in perenne
concorrenza col Faciolo del Columbus, e bazzicava il cinema “dei preti” al San Francesco vendendo mostaccioli, fusaglie e pescetti di liquirizia, caramelle colorate o gallette marcate “unrra”, generi alimentari ramazzati da fondi di magazzino di dubbia provenienza. Aveva conosciuto tempi migliori il sor Paolo e lui te li raccontava, ogni volta aggiungendo capitoli inediti, e ti diceva di quando per Garbatella potevi incontrare Pasolini o qualche altro gran scrittore “che mo’ nun me ricordo” e dentro per i lotti giravano film Maria Bosè, Maurizio Arena o Totò con Marcellino. Lui, allora, c’aveva una rete di pischelli da mandare a spasso con le cassette al collo e vantava una sorta di monopolio di preservativi a basso costo, residui di chissà quale fornitura militare, profilattici Olla di precaria resistenza eppure d’imbarazzanti dimensioni. Uccio, Antonio Angelucci
“Io ero uno dei co.co.co. assunti dal sor Paolo, “raccontava Uccio”, c’ho avuto sempre il tempo indeterminato nel senso che sapevo quando cominciavo a vende ma no quando staccavo. La zona mia poi era larga. Andava dalla “via dei culi scoperti”, i pratoni dove le coppiette s’infrattavano a ridosso della collina dove poi t’hanno costruito il CTO lì alla Villa di Lucina, fino all’uscita del cinema Garbatella, oppure attorno ai campi di pallone la domenica sul Lungotevere a Ponte Marconi. Un altro mio lavoro era da Donna Amabilia che di mestiere faceva la tabaccara a Piazza Pantera. Del tutto franca da regole di mercato vendeva a simpatia assecondando più il suo umore ballerino o il solletico della gelosia che la preoccupazione dei soldi in cassa. A Maria la “moretta” per esempio aveva dato l’interdetto. Accecata dalla prepotente bellezza giovanile della ragazza, Donna Amabilia aveva deciso che per lei non c’erano profumi, non c’erano saponette o spille, non c’era merce. Bottega chiusa e amen. In compenso per altri, soprattutto se ragazzotti paini o adulti d’un certo peso, si lasciava andare, di nascosto del marito, in generose donazioni di sorrisi e sigarette sfuse, di caffè offerti con allungo di sambuca o altro ancora al banco impiastrato del “bar degli zozzoni”.>>

Questo pezzo non l’ho scritto io. L’ha scritto Uccio. Suo il racconto, suo il ritmo delle parole, sua l’arguzia e la capacità di far vivere i personaggi più diversi uno accanto l’altro, di collocarli sullo sfondo d’un lotto oppure, un attimo dopo, dentro qualche evento importante, accanto magari a Togliatti o al Papa, facendoli cioè diventare protagonisti d’una storia grande, d’una “Macondo”, viva e irridente, come appunto è la Garbatella che conosciamo e amiamo.

Ho conosciuto Uccio più di 40 anni fa. Non avevo ancora 20 anni ma, a differenza di Paul Nizan che arrivò a ripudiarla come bella età, credo che quella età e quel periodo – a cavallo tra il ’68 e i primi anni ’70 – siano tra i più straordinari e belli in assoluto.

Con Uccio, che aveva 20 anni più di me, e con Giovanni Zarfati detto Zarafat, che mi superava d’una buona quindicina, andammo in vacanza in Calabria. Una storia strana a ripensarci oggi. Quale ventenne andrebbe oggi in vacanza con due adulti. Ma soprattutto quale genitore manderebbe il proprio figlio non maggiorenne (allora si votava a 21 anni) con due signori per di più sconosciuti. Fatto sta che partii per la Calabria con questa coppia strana di personaggi letterari. Zarafat somigliava a Sancho Panza e Uccio poteva benissimo prestare il volto a Don Quijote de la Mancha. A questa calata poi s’aggiunsero altri di Garbatella: Aldo e Mirella, Paolo e Roberta, Vittorio, Giampiero e tanti altri. Ma, al di là dell’appello dei ricordi su chi c’era e chi no, il segno di quella vacanza fu senz’altro dato da Uccio. La sua arguzia ben si combinava con la grassa ironia, di tradizione giudaica romanesca, di Giovanni. E tutti e due sapevano come parlare delle cose più diverse, come dire di questioni serie con leggerezza, come sfottere anche la compostezza marxista leninista di chi tra noi aveva fatto scelte più che militanti.

Uccio è stato per me il primo maestro di scrittura che ho incontrato. Senza citare Freud, mi ha trasmesso il significato più vero del “motto di spirito”, di quella capacità di battuta che è atto liberatorio, sintesi creativa, sorridente capacità critica.

uccio-durante-una-manifestazione-a-romaUccio mi ha insegnato che si possono sempre fare cose nuove con le parole. E che le parole possono essere dette, espresse in battute, lasciate libere di andare a leggere o anche di rimanere impresse sui muri e sui cartelloni. Uccio è stato un grande scrittore di muri. Quando l’ho incrociato aveva smesso di preparare miscele fatte di impiastri di nerofuno e catrame per rendere indelebili slogan e parole d’ordine da lasciare nei punti più visibili e che nessuno potesse cancellare. La sua carriera di spennellatore di muri la faceva risalire ai giorni della visita di Ridgway, “il generale peste”, massacratore della guerra di Corea, venuto a Roma nel giugno del 1952 e accolto da forti manifestazioni di protesta.

Poi via via, la sua arte di strada s’era evoluta negli anni ’60 fino a che, per decisione di partito, aveva abbandonato le scritte indelebili sulle facciate di case per dedicarsi a striscioni, cartelloni ed altro, verniciati ed attaccati con colla per rispettare il decoro urbano del quartiere. Ma, qualunque fosse il mezzo usato, il segno della sua capacità comunicativa sapeva sempre come percorrere le strade di questo quartiere, di questa “Macondo” strana, forte e gentile, che è la Garbatella. E Uccio nella storia di questo territorio, lunga ormai quasi cent’anni, merita un posto particolare e merita ben più d’un racconto veloce seppure coccolato da riferimenti storici.

Di lui, che ricordo col sacco in spalla e con il sorriso dei giorni buoni, mi vengono ora incontro i suoi ultimi istanti narrati qui dalla figlia Paola. E inevitabilmente in questo piccolo comizio letterario a lui dedicato mi viene in soccorso una frase presa dal capolavoro di Garcia Marquez: “Arcadio trovò ridicolo il formalismo della morte. In realtà non gli importava la morte ma la vita, e per questo la sensazione che provò quando pronunciarono la sentenza non fu una sensazione di paura ma di nostalgia”. Ecco, sulla sua assenza di paura e sulla sua nostalgia per la vita, ora chiudo.

Fai buon viaggio Uccio. Bagaglio leggero e passo veloce. Che la strada dove ti sei incamminato, piena dei racconti che ci hai regalato, ti sia lieve e colma del nostro affetto.

 

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