Il ricordo di Carlo Lizzani a dieci anni dalla sua scomparsa

Riceviamo e pubblichiamo queste toccanti parole della scrittrice Maria Iatosti, a dieci anni dalla scomparsa del regista Carlo Lizzani, il 5 ottobre 2013. Carlo era anche un nostro amico e amico della Garbatella. Aveva accettato con piacere di scrivere l’introduzione alla prima edizione di “Garbatella tra storia e leggenda” e partecipato con entusiasmo alla serata al cinema Palladium, gremito di cittadini, per la presentazione del libro. Insieme a Maria, tutta la redazione di Cara Garbatella si stringe intorno ai figli Francesco e Flaminia, in ricordo del loro amato padre (g.r.)

CIAO, CARLO

Tu parli, parli, io ti ascolto… Amavamo l’America, il cinema, la rivoluzione, i libri. Un libro ci ha fatto incontrare. 1949, Libertas Film, Salita del Grillo, via Nazionale, Roma. Io vent’anni, mollato studi e progetti paterni, abbracciata la lotta, mi conquistavo pane e libertà a centoventi mensili nel seminterrato tappezzato di manifesti filmici d’oltrecortina o sovietici. Salivo di corsa sempre in ritardo la scalinatella e, fiatone e guance rosse, la testa a parole e concetti nuovi come découpage, montaggio, flashback, piano sequenza, a decrittare la calligrafia minuta e rapida sulle pagine fitte fitte mi sedevo alla macchina per scrivere della tua storia del Cinema italiano Fuori orario, per duecento lire. Che regalo! Guadagnare per imparare tutte quelle cose, da Camerini e Blasetti a Rossellini e De Santis, da Lyda Borelli a Anna Magnani, da La corona di ferro a Roma città aperta… Il cinema, io ce l’avevo nel sangue. Nascosta nei bagni del Centro Sperimentale avevo svolto il tema di ammissione per conto di mia sorella maggiore, bellissima ma poco incline all’arte dello scrivere, dilungandomi sulla famosa corsa della Magnani: Francesco! Francesco!

Francesco, come tuo figlio che ha il tuo volto, le tue mani, la tua voce, la serena, pacata lucidità del tuo parlare di uomo sapiente e politico puro, e spacca il cuore con le parole, là, di fronte alla bara nuda, spartana, con tutta la gente intorno, attonita, gli occhi gonfi, la gola chiusa, il cuore stretto a pugno… Io seduta fra Antonella Lualdi e Carla Fracci, Francesco che affabula di un re malato di malinconia che cercava la felicità… E i ricordi si sbrigliano, viaggiano, veloci, scombinati: immagini, lampi. 1963: Milano del miracolo. Le serate con Ugo, i suoi risotti mitici, il suo vitalismo, i giri nella città impazzita, che corre a precipizio verso il boom… Ugo che fa la parte di Luciano, Ricki che fa la parte che Marcello non ha voluto fare e Giovanna che fa la parte di Anna –e vuole che le spieghi, le racconti com’era davvero la vita, davvero così agra, o no? Il Derby, il mio amico Jannacci che canta con la chitarra sotto il mento, la faccia stralunata, nella latteria dei morti-di fame e degli artisti… e il Pirellone che alla fine esplode, sì, ma senza bombe, e addio rivoluzione, addio sogni…

Amavamo l’America di Ombre rosse e di Ragazzo negro. Odiavamo l’America della CIA, di Sacco e Vanzetti, del maccartismo, della guerra fredda, ma ci nutrivamo ingordamente di pellicole e di romanzi d’oltreoceano, anche quelli tenuti in sospetto da una cultura di parte, di stampo zdanoviano e neorealista. Il neorealismo! Che scoperta! Che rivoluzione! Spazzando via frivolezze, leziosità e telefoni bianchi, in mezzo a mille difficoltà il neorealismo portava nel cinema, ma anche in pittura, in letteratura, il bisogno di libertà, la voglia e il coraggio di guardare al mondo dalla parte del popolo. Le tue lezioni appassionate! Le discussioni, gli scontri, le polemiche anche interne al grande partito – Guttuso-Turcato, Vittorini-Togliatti –. “II neorealismo, dicevi, è una rivoluzione formale non semplicemente di contenuti, ma, di coscienza linguistica, di linguaggio: un modo nuovo di muovere la macchina…”. “Basta con la bella immagine, la bella pagina! Fate parlare gli uomini, i fatti, compagni! ti accaloravi. “Basta fiori, paesaggi, monumenti, Esistono le fabbriche, le case dense di dramma della nostra provincia… C’è il Sud, che preme per il riscatto dal folklore C’è la storia, quella vera, senza retorica, che attende ancora un’interpretazione……”. Tutto il tuo cinema testimonierà un interesse profondo per la storia. Ne avevi precocemente dato prova in quegli anni nei tuoi filmati sull’eccidio di Modena, sull’Emilia rossa, sulle terre insanguinate dalle lotte contadine, sul risveglio del Mezzogiorno, dai sassi di Matera ai bassi di Napoli.

Carlo Lizzani riceve da Vittorio De Sica a Saint Vincent la Grolla d’ oro per il film ” Cronaca di poveri amanti”, come migliore regia del 1954.

I tuoi primi film: Achtung! Banditi!, Cronache di poveri amanti: Maciste in croce sul sagrato di san Lorenzo!– Genova, la cooperativa dei partigiani, appoggiata dal partito e finanziata anche dal popolo. Cinquecento lire per una quota. Mi offristi di entrarci, ma chi le aveva mai viste cinquecento lire! Quattro mesi di stipendio, quando c’era! Finito il lavoro alla Libertas e successivamente alla Federazione dei Circoli del Cinema, ero approdata al Sindacato Edili, in piazza dell’Esquilino, a due passi dal Viminale di Scelba e da «Vie Nuove», rotocalco culturale del partito che la domenica diffondevo per le strade del mio quartiere insieme a «l’Unità».

E intanto c’era la storia, c’erano le lotte, la fatica quotidiana, la politica, l’amore – io sempre innamorata, i sogni… Volevo fare la rivoluzione e diventare giornalista, scrittrice. Anche scrivendo si può affrancare l’umanità dall’ingiustizia, mi dicevo convinta. E ci provavo. C’erano stati già un mio esordio narrativo sul «Lavoro» di Gianni Toti, e i primi quattro versi su «Pattuglia» di Gillo Pontecorvo compagno direttore e già attore – l’operaio Pietro fucilato insieme a te, parroco Camillo lungo lungo magro magro in abito talare, ne Il sole sorge ancora – film girato tra mille difficoltà tra la bella primavera della Liberazione e l’autunno del ’46. A Milano.

La nostra Milano, dove ci siamo ritrovati dopo anni. Milano dei miei furori e dei tuoi banditi romantici, oggi così perduta nella sua dissennata smania di cementificazione, con le sue torri fantasma, i suoi residence spettrali, deliri miliardari di architetti e urbanisti rampanti che ne hanno devastato il cuore, mutato il volto, stravolto l’armonia razionale, sapiente e compatta, tradendo la vocazione, la “religione laica del fare”, di questa città concreta, pragmatica, orgogliosa.

La nostra Milano viva del dopoguerra: esperienza fondamentale per quelli come noi: con pochissimi soldi in tasca e tante idee, tanto entusiasmo; il mondo che cambia, che sogna la luna, la scoperta dell’amicizia e della solidarietà, la conoscenza di tanti giovani intellettuali, letterati, artisti, pittori, fotografi squattrinati come noi che frequentavano gli stessi mitici luoghi: Brera, il Giamaica, la latteria delle sorelle Pirovini, san Marco, corso Garibaldi, via Solferino, il Carcano, il Piccolo… Milano operosa, socialista. Milano delle fabbriche, della ricostruzione, delle case editrici, di Feltrinelli e dell’Umanitaria, dei treni del Sud, delle battaglie, dei grandi scioperi. Milano di Dario Fo, lo svitato. E poi ancora Milano del miracolo, di nuovo ritrovati, il passo allentato, spenti i furori rivoluzionari, qualche lira in più, il benessere, la fama, la frenesia, la sbornia del “boom”, con quello che di insidioso, di subdolo vi si annidava, e che pochi – Pasolini, Bianciardi, Mastronardi –intuirono.

Carlo Lizzani il 19 gennaio 2010 presso il teatro Palladium alla presentazione del libro “Garbatella tra storia e leggenda”

 

È un mattino di sole d’inverno romano, la folla ossessa di consumatori prenatalizi invade i vialoni squadrati del tuo rione dei Prati. Ho pigiato il bottone lucido del citofono e tu scendi, attraversi l’androne maestoso con la grande pianta e sei nel cortile dove ti aspetto… Quel cortile che oggi, 5 ottobre 2013 hai scelto come estremo approdo. Sto lavorando e lo sento alla tivù. Un colpo. Il cuore che si ferma. La ragione che si rifiuta: non ci credo, non è possibile, non deve essere… Ma quelli insistono.

Hai staccato la chiave, dicono. Ecco, è una bugia, è sbagliato: la chiave non si stacca, è la spina che si stacca, c’è qualcosa di stridente, di sfasato, di irreale… Non puoi averlo scritto… Non tu, che nelle parole credi, ne conosci il valore e il peso, da uomo e da scrittore.

È quasi Natale e c’è il sole. Davanti a un tavolo d’osteria con la tovaglietta a scacchi bianchi e rossi, tu parli, evochi, racconti, spieghi, io chiedo, ascolto, prendo appunti, e il nostro viaggio ha inizio. Roma, Milano, qualche lettera, qualche chiacchierata, i libri che ci siamo scambiati. I miei, i tuoi con le amorose dediche… la tua dolcezza giovane, la tua sapienza, la tua lucidità, il tuo esserci sempre: gentile, empatico, attento, generoso… Ti era piaciuta una mia lettera di Capodanno, “da conservare insieme a quella di Pertini” … La tua delusione, la tua frustrazione. Ho tanti progetti, ma non mi fanno lavorare più, neanche quelli di Rai tre… Avevo un sogno: fare un film su Di Vittorio. Raccontare la storia di Di Vittorio, e della CGIL, significa ripercorrere un secolo di lotte anche sanguinose, di conquiste, di trasformazioni radicali… Ne avevo parlato con lui una sera di quasi cinquant’anni fa, in casa sua…”.

Il film su Di Vittorio non lo farai. Non farai il progettato viaggio in Italia con Francesco, non sarai come avresti voluto alla mia prossima presentazione, e alla mia domanda sullo stato generale delle nostre sorti e della tua salute non soltanto fisica, mi risponderai con un sorriso lieve, solo un po’ malinconico, come quella mattina di quasi Natale a via dei Gracchi, citando Woody Allen: “Dio è morto, Marx pure, e anch’io non sto molto bene.”. E te ne andrai. E io ti aspetterò. Ciao, Carlo.

Maria Jatosti, Roma, quattro ottobre 2023

 

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