di Antonella MACRELLI
Ricorda tutto Emanuele Di Porto di quel triste e piovoso mattino del 16 ottobre 1943.
Aveva 12 anni quando, durante il rastrellamento nazista al ghetto di Roma, vide dalla finestra della sua casa a via della Reginella portare via per sempre su un camion la sua mamma Virginia.
Corse giù dalle scale per raggiungerla ma , una volta salito su quel maledetto autocarro, lei lo respinse fuori con un calcio ‘salvifico’ che lo sottrasse ad una triste fine.
“Mia madre mi ha fatto nascere due volte- racconta Emanuele, che abita ancora lì a 92 anni -una, il giorno in cui sono effettivamente nato e l’altra quando mi ha buttato giù da quel camion”. Da allora la mamma è stato il suo pensiero costante nella speranza di poterla rivedere un giorno. Ma le sue aspettative furono deluse quando, nel giugno del 1944, la guerra era finita: dei 1259 cittadini italiani, tra i quali 1023 di religione ebraica catturati dai tedeschi, tornarono solo in 16 tra cui una donna, Settimia Spizzichino che raccontò a Emanuele e alla sua famiglia come Virginia, allora trentasettenne, appena scesa dal treno al campo di sterminio di Birkenau, fosse stata avviata ai forni crematori.
È proprio Emanuele Di Porto che oggi ancora racconta ai ragazzi delle due classi quinte del plesso della scuola primaria Cesare Battisti, Istituto Comprensivo Piazza Sauli, la storia che gli cambiò la vita.
“Non sono mai stato un bambino né ora mi sento vecchio” risponde alle numerose domande dei ragazzi che, in religioso silenzio, ascoltano i suoi racconti e la lettura del libro scritto da Isabella
Labate dal titolo “Il bambino del tram”.
È lui il bambino del tram che quel mattino, disperato, sale sulla circolare, che dal capolinea di Monte Savello percorreva tutta Roma, accolto dal vetturino e dal bigliettaio ai quali dice : “so’ ebreo e sto scappando”. Successivamente venne coperto dai colleghi, a cui i due tranvieri lo affidarono durante i turni seguenti, e per due giorni e due notti, come in una staffetta protettiva, un passaparola silenzioso protegge il bambino e lo tiene al caldo. La notte infatti compare una coperta e il giorno, per sfamarlo, delle buone e ancora calde ciriole. Uomini che hanno sfidato la paura di essere scoperti, dimostrando una falsa indifferenza nei suoi confronti e mantenendo il silenzio nonostante l’andirivieni dei numerosi passeggeri che salivano su quella vettura. Emanuele, dopo aver vissuto due giorni nel tram viene individuato da un conoscente e riesce a raggiungere il padre, che nel frattempo si era rifugiato con gli altri figli dai parenti a Testaccio . “ Siamo rimasti in pochi- continua Emanuele – ad aver vissuto quegli anni e a poterli ancora raccontare; penso che voi abbiate bisogno di me, ecco perché mi mantengo così giovane all’apparenza, perché il mio compito ora è quello di trasmettere alle generazioni future la memoria di quei tempi”.
I ragazzi riunitisi per accoglierlo nel teatro della scuola media Macinghi Strozzi lo hanno ascoltato per quasi due ore in un silenzio interrotto solo dalle loro pressanti domande; per alcuni è scesa una lacrima.
“Hai mai avuto paura?”- chiede Viola.
“Sì, di essere ebreo- risponde -ma nel giugno del 1944, quando la guerra è finita, mi trovavo a Piazza Venezia per festeggiare la vittoria e ho cominciato ad urlare SONO
UN EBREO , senza più la paura di dovermi nascondere “.
L’incontro si è concluso con saluti e abbracci e con la richiesta di autografi che Emanuele ha elargito volentieri . Non è mancata la foto di gruppo davanti alla scuola come ricordo di una piacevole giornata da ricordare.





